Non so se gli slogan sui “nativi digitali” hanno bisogno di sepoltura. In fin dei conti, anche se ogni tanto saltano di nuovo fuori, come gli zombie di un brutto film, ciò accade sempre più di rado. Il che non ha nulla di sorprendente: non solo gli slogan erano remotissimi dalla realtà, ma venivano contraddetti così di frequente dall’esperienza comune che il difficile non è spiegarsi la loro scomparsa, ma la loro (per quanto effimera) popolarità.
Nel caso ci fosse ancora bisogno di una lapide, tuttavia, l’ultimo libro di danah boyd (sì, si scrive così, senza maiuscole) potrebbe tornare utile. It’s complicated: The social lives of networked teens è infatti dedicato a mostrare la sostanziale continuità di abitudini, atteggiamenti e ragionamenti tra gli adolescenti statunitensi contemporanei e i loro predecessori. La differenza rispetto ai teorizzatori dei “nativi digitali” non è però solo nei giudizi: questo libro si basa su ricerche di prima mano, non su slogan privi di documentazione – e scusate se è poco!
L’autrice del resto prende di petto tutta la retorica sui “nativi digitali”, dichiarando che “is worse than inaccurate: it is dangerous” (p. 197). Difficile darle torto. Credere che l’uso di semplici interfacce di comunicazione fornisca intuizioni privilegiate sul mondo significa mettersi sulla strada giusta, soprattutto nel settore educativo, per smantellare ciò che fino a oggi si è fatto nel settore (e non è poco). Giusto per fare un esempio, l’esperienza mostra che né gli adulti né i ragazzi sono particolarmente bravi a capire in che modo funziona un motore di ricerca come Google, e quindi a capire che i risultati proposti spesso non sono neutri, ma sono il frutto di un’attenta selezione editoriale da parte di un’azienda privata. O, in altri termini:
just because people have access to the internet does not mean that they have equal access to information. Information literacy is not simply about the structural means of access but also about the experience to know where to look, the skills to interpret what’s available, and the knowledge to put new pieces of information into context (p. 172).
Va detto che le osservazioni presentate nel libro, e di cui quella appena vista è un buon esempio, sono quasi tutte banali. Si limitano infatti a esplicitare ciò che, in molti paesi sviluppati, è ben visibile a chiunque abbia a che fare con adolescenti. Tanto per dirne una, gli strumenti elettronici di comunicazione, più che creare strane reti sociali, contribuiscono di solito a rafforzare i legami con gruppi tradizionali. In Italia, per quanto manchino studi paragonabili, non si fa fatica a trovare equivalenti dei gruppi descritti da danah boyd: “quelli della parrocchia”, “i ragazzi del campetto”, “i compagni di scuola”, “gli amici del mare”… E “most teens aren’t addicted to social media; if anything, they’re addicted to each other” (p. 80). Tutto banale, insomma. Ma queste banalità non vengono dette quasi da nessuno in modo esplicito, anzi! In una situazione del genere chiamare le cose con il loro nome è quasi sovversivo e la banalità non solo è rivoluzionaria ma richiede un sacco di sforzo per essere raggiunta.
Oltre un certo livello, certo, la banalità (illuminante) finisce e i dati non parlano da soli. Somiglianze e differenze sociali non possono essere messe su una bilancia e misurate in modo oggettivo. Però danah boyd mette insieme una bella mole di esempi e di documentazione. Alla fine si vede che, per esempio, gli studenti statunitensi su Facebook tendono comunque a fare amicizie all’interno del proprio gruppo etnico, riproducendo le dinamiche che si trovano all’esterno. E quindi una studentessa che vive in una scuola multirazziale può accorgersi con un po’ di sorpresa che in realtà tutti i suoi amici che commentano le sue attività su Facebook hanno la pelle dello stesso colore della sua (p. 165).
Alla base della popolarità delle tecnologie informatiche danah boyd indica anche una causa specifica: la graduale infantilizzazione degli adolescenti nella società statunitense. Tagliati fuori dal mercato del lavoro, privi di luoghi d’incontro non sorvegliati nella realtà, spesso impossibilitati a spostarsi, senza macchina (né motorino, evidentemente…) all’interno di grandi suburbi privi di trasporti pubblici o nelle campagne, gli adolescenti si rivolgono alla comunicazione in rete per semplice mancanza di alternative. “What the drive-in was to teens in the 1950s and the mall in the 1980s, Facebook texting, Twitter, instant messaging, and other social media are to teens now” (p. 20). Tesi un po’ forte, non dimostrata in modo rigoroso, e che probabilmente è solo una piccola componente di ogni possibile spiegazione. Mentre è senz’altro più evidente che, per esempio,
Teens often want to be with friends on their own terms, without adult supervision, and in public. Paradoxically, the networked public they inhabit allow them a measure of privacy and autonomy that is not possible at home where parents and siblings are often listening in (p. 19).
Nel libro in pratica non si parla di questioni di competenza della linguistica (anche se un certo spazio viene dedicato al modo in cui le comunicazioni vengono “cifrate” per renderle comprensibili solo ad alcuni destinatari). Anche gli studiosi di lingua contemporanea possono tuttavia ricavare molte utili informazioni di contesto da questa fonte. E, ciliegina sulla torta: oltre ai formati tradizionali, il libro è scaricabile gratuitamente in PDF.
danah boyd, It’s Complicated: The social lives of networked teens, New Haven e Londra, Yale University Press, 2014, pp. xi + 281, download gratuito in formato PDF, ISBN 978-0-300-16631-6; scaricato da http://www.danah.org/books/ItsComplicated.pdf . Di questo libro è stata fatta anche una tempestiva traduzione italiana, che però non ho ancora visto.
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