Dopo il libro di Andrade di cui ho parlato la settimana scorsa ho letto anche Guns for the Sultan di Gábor Ágoston. Sottotitolo: Military Power and the Weapons Industry in the Ottoman Empire. Lettura interessante e con un risvolto linguistico preciso.
Anche questo libro (uscito nel 2005) si colloca nel filone di studi storici che collocano molto tardi la “grande divergenza” tra Europa e resto del mondo. Lo fa però da un’angolazione particolare, in quanto è ben noto che, sul piano militare, l’Impero Ottomano è stato sempre in grado di confrontarsi con le potenze europee. Per tre secoli, in sostanza, vincendo: dalla conquista dei Dardanelli fino alla sconfitta alle porte di Vienna, nel 1683. E poi, per due secoli e mezzo, perdendo… ma non senza numerosi momenti di successo, fino alle disastrose sconfitte inflitte all’Impero Britannico nel corso della Prima guerra mondiale.
In ogni caso, per il periodo che oggi mi interessa di più, cioè il Seicento, sul piano militare gli ottomani si mostrarono di regola superiori agli europei. Un po’ per la loro capacità organizzativa e logistica, e un po’ anche per l’uso esperto delle armi da fuoco. Ciononostante, la storiografia è stata costellata di
tentativi di ridimensionare queste capacità, assegnando agli ottomani un ruolo minore, arretrato, non innovativo.
tentativi di ridimensionare queste capacità, assegnando agli ottomani un ruolo minore, arretrato, non innovativo.
A queste posizioni Ágoston oppone lo studio delle fonti ottomane, da cui escono i dati numerici per 31 tabelle inserite nel testo e 69 collocate in appendice. Gli argomenti coperti sono molto vari: stime sulle produzioni annuali di salnitro e polvere da sparo, sul numero dei giannizzeri in servizio, sulla produzione di singole fonderie di cannoni… Una ricostruzione quantitativa così dettagliata smentisce, secondo l’autore, diverse leggende: che l’Impero Ottomano non fosse in grado per esempio di produrre al proprio interno armi in quantità sufficiente ai propri bisogni; che le armi ottomane fossero di scarsa qualità; che i processi lavorativi fossero meno efficienti di quelli europei; e così via. In particolare, fino al Seicento il complesso militar-industriale ottomano se la giocava alla pari con quello veneziano – a sua volta, probabilmente il più efficiente d’Europa.
Mi interessano molto anche le osservazioni di Ágoston sugli errori di prospettiva generati dall’uso come unica fonte delle relazioni di viaggio d’epoca. Nelle parole dell’autore, “assumptions regarding Ottoman weapons technology have been based on random and often atypical evidence without respect for chronology”, cosa avvenuta “Following contemporary narrative sources’ obsession with giant Ottoman cannons” (p. 61). In altre parole, i viaggiatori europei rimanevano colpiti dai pezzi di artiglieria di maggiori dimensioni. Dai loro racconti passò agli storici l’idea, ripresa anche da Carlo Maria Cipolla, che gli ottomani in fatto di artiglieria fossero afflitti da gigantismo, e che impiegassero le loro risorse in armi enormi ma poco pratiche, a differenza di quel che accadeva in Europa. Esaminando la produzione degli arsenali, Ágoston mostra che non era così e che la distribuzione di armi di vario calibro non era probabilmente molto diversa da quella europea (capitolo 6).
Tuttavia, è anche certo che il trasferimento di informazioni tecniche andava in una direzione sola: non ci sono innovazioni tecnologiche ottomane che siano arrivate in Europa, perché non c’erano alla base. E lo testimonia, appunto, anche il fattore linguistico: “many of the gun names in the Empire derived from European types of guns, an apparent sign of acculturation”, anche se “Ottoma pieces differed from guns of similar names, and these differences seem to have been more profound than dissimilarities among European guns of the same kind” (p. 64): quest’ultimo punto a testimonianza che un po’ di differenziazione c’era (l’autore insiste per esempio sulla minor standardizzazione dei calibri ottomani rispetto a quelli europei).
In pratica, i nomi normalmente dati ai pezzi di artiglieria più grandi, genericamente chiamati kale-kob (dal persiano qal’eh-kub, ‘distruttori di castelli’: p. 73), erano (con numerose varianti): şayka, balyemez, bacaluşka, canon (p. 74). Tra questi, şayka viene dalla parola “slava” chaika, ‘gabbiano’ (p. 75); balyemez è parola di origine incerta (p. 77); e gli altri due sono “europeismi” di varia trafila (pp. 79-81; su questi si può vedere anche il famoso lavoro dei Kahane sulla “lingua franca”, che con la lingua franca non ha a che fare, ma con gli italianismi sì…).
I pazzi di artiglieria di medio e piccolo calibro erano invece kolunburna, darbzen, şâhî. I più piccoli in assoluto erano saçma, eynek, prangıs, misket e şakaloz. Il celebre moschetto dei giannizzeri era invece chiamato tüfenk. Ágoston non fornisce informazioni su tutte queste parole, ma dal punto di vista linguistico è ovvio il rapporto di kolunburna con l’europeismo colubrina, mentre şakaloz deriva dall’ungherese szakállas (p. 87). Viceversa, è altrettanto ovvio che nessuna parola turca è entrata nell’italiano (o in altre lingue romanze).
Basandosi anche su queste osservazioni, Ágoston nota che la parità tecnologica ottomana si basava in sostanza su un flusso unidirezionale:
For the most part European-Ottoman military acculturation involved European military experts who sold their expertise to the Ottomans and not vice versa. Linguistic evidence also supports this observation: Ottoman names for weapons and ships often come from Greek or from western languages, suggesting that ordnance and naval technology primarily flowed from Byzantium and Europe to the Ottomans. The Ottomans thus do not differ from their opponents in the use of foreigners. Where they do differ is that their indigenous experts do not seem to have been in much demand in the West (p. 193; Ágoston nota che gli specialisti ottomani erano comunque molto richiesti nel Medio oriente e in generale in Asia).
La parità ottomana non era quindi basata sulla superiorità tecnica in questo specifico settore, ma sull’efficienza in altre aree. Ágoston si allontana esplicitamente sia dal determinismo tecnologico sia dall’idea che la tecnologia fosse irrilevante (p. 190): per gli ottomani, disporre di armi e munizioni di qualità mediamente simile a quella europea, anche con i ritardi dovuti ai tempi del trasferimento tecnologico, era evidentemente sufficiente. La fine della superiorità ottomana a fine Seicento viene quindi attribuita non all’adozione europea di baionette e moschetti a pietra focaia, ma al fatto che nel frattempo gli stati europei erano finalmente divenuti capaci di mettere in campo eserciti comparabili a quelli ottomani, rifornirsi di armi senza problemi, e in generale avevano rinforzato “production capacity, finance, bureucracy, scientific engineering and state patronage” (p. 201). E anche così, all’inizio del Settecento gli ottomani riuscirono rapidamente a riorganizzarsi e a ritornare a vincere… fino all’ascesa della Russia a metà secolo.
Gábor Ágoston , Guns for the Sultan. Military Power and the Weapos Industry in the Ottoman Empire, Cambridge (UK), Cambridge University Press, 2016, ISBN 978-0-521-60391-1, pp. xvii + 277. Letto nella copia della Biblioteca di Filosofia e Storia dell’Università di Pisa.
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