Ovviamente, la realtà è ben diversa, e basta guardarsi attorno per vedere un panorama a macchie di leopardo. Certo, in molte aree è stato speso nei secoli molto lavoro intelligente, e le conseguenze si vedono. Tuttavia ci sono ancora infinite aree, spesso di alto profilo, in cui è evidente che la gestione razionale passa in secondo piano rispetto ad altre cose: tradizione, soluzioni di minimo sforzo, soluzioni provvisorie rimaste in piedi per caso, eccetera. I linguisti, del resto, sanno bene che molti aspetti del linguaggio umano – scritto e parlato – condividono queste caratteristiche, nonostante una generalizzata tendenza a fornire giustificazioni a posteriori (per non parlare poi dell’educazione, che è forse il settore in cui è più vistosa la distanza tra ciò che facciamo in quanto società e ciò che sappiamo sui meccanismi di funzionamento del processo educativo).
Corollario di questo stato di cose: chi studia le attività contemporanee nel settore della comunicazione ha un immediato interesse pratico a vedere altri modi di fare le cose. Quelli di altri paesi e altre culture, per esempio, ma anche quelli di altre epoche. Nella pratica di ogni addetto ai lavori dovrebbe quindi entrare, ogni tanto, un po’ di sano studio dell’antichità.
Nel caso specifico, questo è esattamente l’atteggiamento con cui mi sono messo a leggere Nell’officina dei classici di Tiziano Dorandi (Roma, Carocci, 2007; ISBN 978-88-430-4088-9): un libro piuttosto breve (le note dell’ultimo capitolo finiscono a p. 139), che dal punto di vista strutturale riprende precedenti contributi dell’autore. Il libro è buono, e, soprattutto, è dedicato a un “problema affascinante” (come si dice a p. 9; e concordo sull’aggettivo), vale a dire le “pratiche della composizione di un’opera letteraria” e il “metodo di lavoro degli autori” nell’antichità. Proverò quindi a sintetizzarne i contenuti, partendo (in questo post) dal primo capitolo.
Capitolo 1: lo stilo e le tavolette
Nella civiltà greca e in quella latina i libri, per secoli, hanno circolato principalmente su rotoli di papiro. I rotoli, a quel che ne sappiamo, venivano fabbricati da professionisti e venduti “vuoti” (p. 18), mentre in una fase successiva un copista trascriveva su di essi i testi.
Fin qui tutto bene, ma gli autori scrivevano i libri direttamente su questi rotoli? La cosa non sembra troppo verosimile. È difficile indicare un limite estremo alla complessità delle opere che si possono comporre a mente, senza appoggiarsi alla scrittura; però è chiaro che, quando la scrittura è disponibile, molti autori trovano più efficace, piuttosto che lavorare solo mentalmente, realizzare appunti preliminari che solo in un secondo momento saranno ripresi e combinati per formare una “bella copia”. Però, un conto è ciò che ci sembra verosimile, un conto ciò che effettivamente succedeva... In alcune opere, tuttavia, sembra si possano trovare tracce precise di questo metodo di composizione basato su appunti scritti e non sulla sola memoria. In Italia (soprattutto a opera di Luciano Canfora, in anni recenti) e altrove è stata infatti studiata e spiegata in questo modo una serie di passi problematici in alcuni testi antichi – passi in cui, insomma, le incoerenze del testo si spiegano bene se si suppone che al momento di realizzare la “bella copia” qualche appunto preliminare sia finito nel posto sbagliato. I casi del genere non sono moltissimi, ma riguardano anche passi di opere illustri: la terza Filippica di Demostene, il III libro della Repubblica di Platone, il prologo al I libro del De rerum natura di Lucrezio, e così via. Come contributo proprio di dettaglio, Dorandi la discussione di un caso simile in un manoscritto d’autore: il papiro di Ercolano che contiene la bozza della Storia dell’Accademia di Filodemo.
Quali conclusioni possiamo ricavare da questi dati? Per sintetizzare la questione, Dorandi parte da un riassunto delle conclusioni fatte da William Prentice negli anni Trenta a proposito dell’opera di Tucidide:
si potrebbe supporre che gli scrittori antichi utilizzassero per la redazione dei loro testi singoli fogli di papiro, riuniti insieme in fasci o conservati in una o più scatole; il manoscritto di un’opera letteraria si sarebbe dunque presentato come una pila di fogli che sarebbero stati poi trascritti in bella copia su rotoli di papiro interi nel momento in cui l’autore decideva di pubblicare il proprio testo (p. 14).
Dorandi precisa però (p. 18) che bisogna escludere, tra gli antichi, “un uso massiccio” di “foglietti di papiro o di pergamena oppure di tavolette di cera o di legno”, “quale è stato presupposto da Prentice”. L’uso è ben documentato, ma “occasionale e non sistematico”. A conclusione del capitolo, si afferma infatti che “Le fasi della composizione di un’opera letteraria erano più complesse e sfumate di quanto non lascerebbe credere l’ipotesi di Prentice” (p. 24). Dorandi presenta invece come propria opinione che
si debba abbandonare definitivamente l’ipotesi che afferma che un manoscritto d’autore consistesse in una pila di fogli già scritti (...). Il ricorso a pugillares era piuttosto limitato alla primissima fase dell’attività compositiva di uno scrittore, alla raccolta di appunti e di estratti, alla redazione di brogliacci di un testo di breve estensione, oppure per apportare qualche aggiunta sporadica (p. 24).
Che cos’erano però i pugillares? Dorandi si serve di questa espressione per indicare una varietà di supporti usati da greci e latini: fogli di papiro o pergamena, oppure tavolette di cera o di legno (p. 19). Viene poi data ampia documentazione sull’uso di supporti del genere per prendere appunti (pp. 19-20) e, soprattutto, come supporto di prime stesure di un testo (pp. 20-24). Infine, il problema del rapporto tra questi supporti e la genesi del codex viene esplicitamente lasciato da parte.
Tutto chiarissimo, e molto convincente, a parte un punto: perché questa ricostruzione escluderebbe l’“uso massiccio” di foglietti e appunti?
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