in the long run economic institutions, psychology, culture, politics and sociology are deeply intervowen. Our very nature – our desires, our aspirations, our interactions – was shaped by past economic institutions, and it now in turn shapes modern economic systems (loc. 104-105 su Kindle).
Un passo indietro, per dare un po’ di contesto. Clark parte da un’idea forte: la Rivoluzione industriale è stata un evento senza precedenti nella storia anche perché ha significato, per una porzione sempre crescente dell’umanità, la fine del ciclo malthusiano. In passato, per gli uomini come per qualunque specie animale, un aumento di risorse produceva un aumento della popolazione, il che portava a un calo graduale delle risorse pro capite, il che portava a un aumento della mortalità, fino al punto in cui l’equilibrio si ristabiliva. I progressi tecnici stabili (a cominciare dall’introduzione dell’agricoltura) non potevano quindi migliorare il tenore di vita medio della popolazione, ma permettevano semplicemente l’esistenza di una popolazione più numerosa rispetto a prima.
Poi è arrivata la Rivoluzione industriale, con la sua crescita economica non controbilanciata da un aumento equivalente della popolazione, e la gente ha iniziato a vivere meglio. Non è diventata per questo più felice (come nota Clark nelle pagine finali, i moderni studi di psicologia concordano nel ritenere che la felicità sia una cosa relativa... uno “stare meglio degli altri”, in modo quasi indipendente dallo stile medio di vita); però fatica molto meno e vive molto più a lungo.
Su questo siamo d’accordo. Ma quali sono le cause della Rivoluzione industriale? Clark ha studiato la storia dell’economia inglese tra il 1200 e il 1870, ed è convinto che la risposta non stia in qualche accidente geografico, ma stia nel modo particolare in cui la società inglese rispondeva alle pressioni malthusiane. In primo luogo, rispetto a civiltà paragonabili, come per esempio quella giapponese, gli inglesi del Settecento si trovavano ad essere più ricchi perché per ragioni culturali avevano uno standard igienico più basso e morivano quindi più giovani. In secondo luogo, a differenza dei ricchi giapponesi, i ricchi inglesi (nobiltà e borghesia) facevano più figli dei poveri: fino al doppio, in media, secondo la ricostruzione di Clark. In una situazione economica statica, questa prolificità faceva sì che i figli dei ricchi scendessero lungo la scala sociale e gradualmente arrivassero a sostituire la discendenza dei poveri, diffondendo così in ogni strato sociale i valori con cui erano stati formati.
Difficile dire quanto questa ricostruzione sia corretta. Un punto chiave per giudicare il suo valore, naturalmente, sta nella misura della ricchezza: gli inglesi del Settecento erano davvero più ricchi dei loro coetanei cinesi e giapponesi? Come detto nell’ultimo post, Pomeranz ritiene di no, ma Clark si schiera esplicitamente contro la ricostruzione del collega e pensa invece che la differenza fosse sensibile, come richiesto dalla teoria malthusiana: a sostanziale parità tecnologica, maggiore densità di popolazione = minor reddito medio, e già all’epoca i paesi dell’Estremo oriente erano popolati più densamente dei paesi europei. Alle dettagliate analisi di Pomeranz, peraltro, Clark contrappone solo le descrizioni dei viaggiatori del periodo. Non è molto, ma è vero che il senso comune dei contemporanei può essere un indicatore più preciso di molti calcoli degli economisti moderni (qui come altrove, semplicemente, le informazioni che abbiamo sono insufficienti a consentire certezze).
In sostanza, quindi, secondo Clark la Rivoluzione industriale è stata solo un fenomeno culturale, prodotto per caso: una società in cui le virtù “borghesi” sono diventate tanto diffuse da permettere un progresso così rapido da consentire l’uscita dalla trappola malthusiana.
Ahimè, Clark lascia molto nel vago i dettagli di questo quadro, inclusi molti punti chiave (e non si vede come avrebbe potuto essere altrimenti, in un libro piuttosto breve). Non è un difetto da poco, ma le idee stimolanti possono anche non essere perfette, all’inizio... Però, dopo articolata discussione di dettagli, Clark chiude il libro in fretta con una spiegazione molto molto semplificata di quello che dovrebbe essere il punto chiave. Perché l’Europa? Perché nessun altro, fino a pochi anni fa? La risposta è molto sintetica: produttività individuale, generata dalle virtù di cui sopra. Agli inizi del Novecento, con macchine tessili identiche, un operaio americano produceva tanto tessuto quanto otto indiani; e così via.
Certo, la produttività è senz’altro una parte della risposta... ma è anche evidente che sulle cause effettive della differenza di produttività Clark rimane molto sul vago, e che non bastano due o tre numeri per spiegare un fenomeno vasto, complesso e articolato. Soprattutto se si tiene conto del fatto che, chiaramente, la diffusione “demografica” di comportamenti virtuosi è tutt’altro che sufficiente a spiegare i successi economici di molti paesi tra Otto e Novecento, oppure oggi.
Resta il fatto che, nonostante i suoi difetti, il libro è molto stimolante. E contribuisce a far pensare che, insomma, non sia tutta questione di accidenti della geografia, ma che le cose che le persone imparano a scuola abbiano un peso non irrilevante nel modo in cui poi va il mondo.
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