giovedì 24 settembre 2015

Penne e computer


Cè chi dice che le penne sono sul punto di tornare in scena alla grande, grazie alla tecnologia. Di sicuro, questo periodo sta portando qualche novità, per chi si interessa di scrittura a mano su computer. 
 

Confesso che io non solo me ne interesso ma, da qualche anno, la pratico, usando i sistemi Windows che una volta venivano definiti a “inchiostro digitale”. Tecnologia attiva da quasi 15 anni, rimasta assolutamente sottoutilizzata ma molto funzionale. Uno dei suoi punti chiave è che riesce a riconoscere con un buon livello di accuratezza ciò che viene scritto a mano: funziona piuttosto bene anche con il mio corsivo... Ho iniziato a trafficarci a inizio 2012 comprando un ottimo, anche se lento, HP TouchSmart, che in mia compagnia si è visto Russie, Cine e Mongolie e fa ancora i suoi servizi. Poi sono passato al più pratico Surface Microsoft.
 
Certo, il Surface continua a essere un apparecchietto di nicchia, e apparentemente viene spesso confuso con un iPad – ma in passato andava anche peggio. Le ultime versioni sono discretamente funzionali, anche se Windows 10 da questo punto di vista non è affatto un passo avanti; il 6 ottobre sarà probabilmente presentata la quarta generazione dei Surface, e sono curioso di vedere se questo porterà qualche innovazione significativa.
 
Tuttavia, il Surface da molti punti di vista continua a essere un aggregato di sottosistemi con ampio margine di miglioramento. Per esempio, un residuo di latenza e lo spazio eccessivo che ancora separa la penna dal “foglio” sottostante rendono difficile legare bene le lettere tra di loro, quando si scrive in corsivo. Sono certo stati fatti molti passi avanti rispetto al TouchSmart che ho comprato nel 2012 (per esempio, adesso vengono riconosciuti anche i caratteri in corsivo maiuscolo!), ma hardware e software ancora non interagiscono al meglio

Alcuni limiti del sistema sono legati a scelte tecnologiche, altri sembrano solo il frutto di confusione operativa. Per esempio, una delle caratteristiche distintive degli ultimi Surface è il bottone violetto collocato in cima alla penna; il quale non serve a far uscire una punta a scatto, ma a far partire il programma OneNote, lo strumento Microsoft per permettere la scrittura di appunti. La funzione è utile e può addirittura ridestare il Surface dall’ibernazione... però con Windows 10 è diventata difettosa e fa partire in automatico la sola versione ridotta di OneNote. In passato era infatti possibile configurare la penna perché facesse partire la versione a funzionalità complete, OneNote 2013, se disponibile sul computer. Adesso non più, e chissà quanto ci vorrà a risolvere un problema così marginale ma così fastidioso per chi fa un uso intensivo del sistema.
 
In questo contesto, Apple ha presentato finalmente la sua versione di computer con penna: l’iPad Pro. Ancora non disponibile, caro più o meno quanto un Surface, ma dotato, secondo Apple, di una penna fantastica. Anche la penna del Surface è piuttosto flessibile (è sensibile alla pressione), ma ciò che si vede nel video qui sotto appartiene a un’altra categoria:
 


Anche alcuni commenti esterni su questa penna sono entusiastici. Ma non va dimenticato che un iPad non è l’equivalente di un computer da scrivania. Anche il riconoscimento della scrittura non è supportato, se ben capisco, dal sistema operativo. La penna meravigliosa produrrà disegni destinati a rimanere tali, senza che sia possibile convertirli facilmente in testo manipolabile in altro modo.
 
L’incrocio positivo tra le tecnologie Apple e Microsoft sembra perfettamente possibile ma ancora molto al di là da venire. Nel frattempo, prendo appunti, un po’ goffamente, con Surface.
 

giovedì 17 settembre 2015

Pistolesi, Diamesia


 
Ho già avuto occasione di esprimere in pubblico tutti i miei dubbi sulla diamesia e sul connesso concetto di “variazione diamesica”. Questa etichetta dovrebbe indicare il modo in cui varia la lingua in rapporto al mezzo di comunicazione, così come la “variazione diafasica” indica il modo in cui varia la lingua in rapporto alla situazione comunicativa, tra formale e informale.
 
L’etichetta (nata nella linguistica italiana, non nella sociolinguistica internazionale) a prima vista sembra anche ragionevole, e lo sembra ancora di più se applicata al caso italiano – che per secoli ha visto differenze molto forti tra scritto e parlato. Tuttavia, se si guarda con più attenzione, si scopre che il discorso non tiene. La variazione diamesica si rivela in buona parte variazione diafasica, e questo mi sembra stia diventando rapidamente il consenso della comunità dei linguisti.
 
Come è nata però, e come si è diffusa, l’etichetta di “variazione diamesica”? Elena Pistolesi ha da poco fornito un importante contributo storico in questa direzione. In una sua sintesi intitolata Diamesia: nascita di una dimensione viene infatti ricostruita la storia della diamesia. Il lavoro è di estremo interesse per varie ragioni; non ultima, l’evidenza con cui mostra come un concetto così traballante è riuscito a divenire di moda e ad entrare in un’intera generazione di studi e manuali.
 
Questo passo falso della linguistica ha avuto comunque un lieto fine, perché negli ultimi anni l’errore è stato individuato: Elena Pistolesi considera ormai “prevalente” la “tendenza (…) all’assorbimento della diamesia nella diafasia” (p. 29). La ricerca scientifica, per fortuna, si autocorregge… ma sorprende la facilità con cui sono state accettate definizioni che in pratica si smontano sulla base del semplice buon senso.
 
Comunque, nella sostanza, il termine “diamesia” è stato inventato da Alberto A. Mioni nel 1983. Alla sua base c’era, al tempo, la confluenza di diversi filoni di ricerca: sull’italiano popolare, sul francese contemporaneo, sul parlato comune. Soprattutto, però, le sue origini sono state condizionate dal rapporto con il dibattito allora vivo sull’italiano popolare. Ripercorro qui le sezioni in cui è diviso il lavoro di Elena Pistolesi.
 
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1. Dall’opposizione al continuum
 
Mioni definisce il rapporto scritto / parlato non come un’opposizione polare ma un continuum, con molti gradi intermedi. In realtà però gli autori portati da Mioni a sostegno di questa ricostruzione (Gregory, De Mauro e Nencioni) non descrivono un continuum, o lo descrivono riferendosi a qualcosa di diverso, facendo molte considerazioni “che difficilmente possono essere integrate nella proposta diamesica” (p. 33). La nozione di continuum si genera quasi da sola.
 
2. La diamesia come dimensione di variazione.
 
Partendo dalle considerazioni di Mioni sull’italiano popolare, che distinguono tra uso scritto e uso parlato, Elena Pistolesi nota che
 
Una volta affermata l’opportunità di considerare separatamente la relazione scritto / orale dalla diafasia, emerge quanto sia difficile definire la prima senza ricorrere alla seconda. Di fatto, come nota Voghera (…), non esiste una varietà che si possa caratterizzare solo dal punto di vista mediale, indipendentemente dalle altre (p. 34).
 
Inoltre, è interessante notare che la proposta originale della diamesia si basa sullo studio dell’italiano popolare, in cui le differenze tra diafasia e diamesia si annullano.
 
2.1. Intrecci di varietà
 
Va notato che diversi studi, italiani e no, si sono posti il problema di evitare “la confusione tra canali e fenomeni variazionali collegati o prevalentemente associati ad esso” (p. 37). Infatti, com’è ovvio, un conto è ciò che si può fare con lo scritto e ciò che si può fare con il parlato. Facendo esempi banali, nello scritto, anche quando si trascrive fedelmente una conversazione, non si può distinguere una “voce” femminile da una maschile, ed è molto difficile indicare anche l’intensità della pronuncia o altro.
 
Nella descrizione della lingua, alla differenza di strumento di comunicazione si può quindi per esempio sovrapporre quella “concezionale”, di vicinanza o distanza comunicativa, eccetera. In generale, in questi modelli la diafasia domina (p. 37) e allo strumento di comunicazione, scritto e parlato, resta un ruolo marginale.
 
2.2. La diamesia in Gaetano Berruto
 
Uno dei paragrafi più importanti del lavoro è dedicato a mostrare il modo in cui il concetto di “diamesia” è stato consacrato e diffuso da Gaetano Berruto, che già nel 1985 lo accettava per definire le dimensioni di variazione. L’inclusione del concetto nel fondamentale lavoro di Berruto Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo (1987) fece sì che la diamesia venisse “adottata dalla comunità scientifica italiana e riprodotta nei manuali” ignorando le cautele espresse da Berruto stesso (p. 40; un’antologia delle sfumate posizioni di Berruto in materia si trova alle p. 41-42).
 
3. L’italiano trasmesso
 
Il concetto di “italiano trasmesso”, collegato a quello di “diamesia” può essere trattato rapidamente: è infatti stato evidente fin da subito che il “trasmesso” non ha caratteri linguistici propri e che non ha quindi molto senso cercare di definirlo.
 
4. Le prospettive globali
 
Lo spazio qui viene dedicato soprattutto (p. 45 e successive) a citare le numerose studiose che hanno descritto in modo più corretto il rapporto tra scritto e parlato. Carla Marco, Monica Berretta e Miriam Voghera hanno infatti riconosciuto bene la realtà dei fatti e hanno semmai contribuito a descrivere il parlato non in opposizione allo scritto, ma secondo le proprie caratteristiche.
 
5. Considerazioni conclusive
 
L’eliminazione della variazione diamesica dalla lista degli assi di variazione usati per descrivere la lingua è un passo importante. Non occorre però cadere nell’eccesso opposto, perché per esempio scindere il canale dei parametri concezionali è una semplificazione (p. 50). La scelta del canale è per esempio inscindibile dall’enunciazione.
 
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Qui termina il lavoro, e mi è difficile non concordare. Per quanto riguarda i problemi determinati dal mezzo di comunicazione, sulla base anche dell’esperienza dell’italiano del web io mi sto servendo da tempo del concetto di “vincoli pragmatici”, cioè semplicemente delle limitazioni prodotte dalla scelta non solo del canale (scritto o parlato) ma del sottocanale (lettera, e-mail, messaggio su WhatsApp…) della comunicazione. Numerose sono però le questioni che devono essere ancora gestite in modo più sofisticato.
 
Elena Pistolesi, Diamesia: la nascita di una dimensione, in Parole, gesti, interpretazioni: studi linguistici per Carla Bazzanella, a cura di Elena Pistolesi, Rosa Pugliese e Barbara Gili Fivela, Roma, Aracne, 2015, ISBN 978-88-548-8407-7, pp. 27-56, letto in estratto inviato dall’autrice.
 
 

giovedì 3 settembre 2015

Corso su scritto e parlato


 
Per il prossimo anno accademico (2015-2016) ho deciso di dedicare il primo modulo di uno dei miei corsi al tema La variazione linguistica tra scritto e parlato
 
La definizione potrebbe suonare goffa: in fin dei conti, per descrivere questo tipo di variazione linguistica si usa spesso, almeno in Italia, l’etichetta di “variazione diamesica”. Questa etichetta mi sembra però, tutto sommato, non molto adatta e sento molto il bisogno di chiarirmi le idee in proposito… una serie di pubblicazioni recenti mi incoraggia in questa direzione.
 
Il modulo presenterà il rapporto tra scritto e parlato partendo dal caso molto specifico dell’italiano. Tuttavia, spero di potermi allargare spesso a questioni più generali! Nonché di presentare contemporaneamente sia, secondo una tradizionale descrizione linguistica, le caratteristiche che distinguono scritto e parlato, sia, in modo più originale, le attività che oggi vengono svolte attraverso il parlato oppure attraverso lo scritto. Il che oggi porta anche a occuparsi dei dispositivi elettronici per la dettatura, ai lavori svolti attraverso Siri e Cortana e così via.
 
In passato mi sono già occupato di argomenti simili in diversi post su questo blog, tra cui: 
 Nelle prossime settimane conto di pubblicare qui diversi altri post dedicati alla questione. L’etichetta generale sarà “Scritto e parlato”.
 
Il corso fa parte della Laurea magistrale in Informatica umanistica dell’Università di Pisa. Le lezioni dovrebbero partire nell’ultima settimana di settembre.
 

martedì 1 settembre 2015

Baron, Words onscreen


 
Naomi Baron, Words onscreen
Il nuovo libro di Naomi Baron mi è piaciuto molto.
 
Più di sei anni fa avevo presentato sinteticamente un precedente libro della stessa autrice, Always On, che si occupava anche di questioni linguistiche. In questo nuovo testo la linguistica è assente. Words onscreen si occupa invece, in un certo senso, di antropologia della lettura. Dico “in un certo senso” perché il quadro d’assieme non è molto definito e tratta infinite questioni diverse. Ci sono però ottime ragioni perché sia così.
 
Nel mondo contemporaneo, infatti, la “lettura” si presenta in forme molto variate e viene portata avanti dai lettori in modi molto variati. Un conto è leggere per studiare, un conto leggere per passare il tempo, e così via. L’uso di molte angolazioni è quindi l’unico modo possibile per dare conto di questa realtà.
 
Ciò significa anche creare un libro composto di innumerevoli microcapitoli, poco collegati gli uni agli altri e spesso di taglio quasi giornalistico. Dalle questioni sulle aliquote IVA applicate agli e-book in Europa alla preferenza giapponese per i fax, dal problema di leggere poesie su schermo fino ai sistemi per riprodurre l’odore di biblioteca, si salta continuamente da un argomento all’altro. Il che, se vogliamo, è anche paradossale, visto che uno dei fili conduttori del lavoro di Naomi Baron è proprio l’importanza dei testi che richiedono una lettura approfondita e meditata.
 
Al di sotto delle sfaccettature ci sono peraltro proprio questi fili conduttori – anche se non arrivano mai (cosa comprensibile, visto quanto detto sopra) a comporre un quadro molto coerente. Il principale di tutti è il tema della persistente importanza della lettura su carta. Dopo tanti discorsi sui nativi digitali, infatti, ciò che si vede è che anche le generazioni più recenti trovano più pratico e funzionale usare la carta per molti tipi di lettura, il che fa pensare fortemente che no, non sia questione di abitudini: per certi tipi di compito la carta è proprio uno strumento migliore. Words onscreen fornisce da questo punto di vista la sintesi più completa e aggiornata dei molti studi recenti che documentano questo non imprevedibile stato di cose.
 
Altro paradosso: ho letto questo libro su Kindle e ho la nettissima sensazione che, proprio come previsto dall’autrice, sia molto difficile superare i limiti dell’interfaccia elettronica per rendermi ben conto del quadro d’assieme. Potessi scorrerlo su carta, forse troverei più facile rimettere insieme le sfaccettature e rendermi conto del discorso di base.
 
Detto questo, visto che ci sono fortissime spinte a sostituire la carta con lo schermo, forse si può saltare subito al discorso finale:
 
The real question is whether the affordances of reading onscreen lead us to a new normal. One in which length and complexity and annotation and memory and rereading and especially concentration are proving more challenging than when reading in hardcopy. One in which we are willing to say that if the new technology doesn’t encourage these approaches to reading, maybe these approaches aren’t so valuable after all (p. 235).
 
Naomi Baron, senza assolutamente opporsi all’uso ragionevole degli strumenti di comunicazione elettronici, ovviamente non concorda con questa risposta. Altrettanto ovviamente, non concordo neanch’io. Lavorare sui testi in modo approfondito è in molte situazioni preferibile al saltellare da una frase all’altra. La nostra società dovrebbe quindi essere capace di fare un esercizio non troppo difficile: saper scegliere, caso per caso, gli strumenti migliori per portare a termine un lavoro, senza farsi sviare dall’ideologia del “tutto digitale”. Del resto, come mostrano molte delle indagini su studenti richiamate nel corso del libro, questo è ciò che i singoli fanno senza troppi problemi in innumerevoli occasioni.
 
Naomi Baron, Words onscreen: the fate of reading in a digital world, Oxford, Oxford University Press, 2014, letto in versione Kindle, pp. dichiarate 321, € 12,88, ASIN B00QH3MDUE, ISBN della versione di riferimento per i numeri di pagina 0199315760.
 
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