Dicevo qualche settimana fa delle mie letture estive e dell’espressività di Alan D. Altieri. In passato però ho parlato da questo punto di vista anche dei Wu Ming, e durante le vacanze ho recuperato con soddisfazione il loro penultimo romanzo collettivo, L’armata dei sonnambuli (secondo elemento, dopo Manituana del 2007, di un progettato “trittico atlantico”).
Ambientato nella rivoluzione francese tra il 21 gennaio del 1793 e il 21 gennaio del 1795, cioè nel periodo che include il Terrore e il Termidoro, dal punto di vista narrativo L’armata dei sonnambuli mi è sembrato la prova più riuscita dei Wu Ming dopo Q. La storia, in alcuni punti, mi ha ricordato anche temi e movimenti di Valerio Evangelisti! Il mio interesse è andato però soprattutto alla questione linguistica, e al problema di rappresentare in modo soddisfacente per il lettore la lingua parlata di un passato ormai piuttosto remoto.
Di questo aspetto mi sono già occupato in un mio contributo, La lingua moderna dei romanzi storici, in cui il grosso dello spazio era dedicato proprio ai Wu Ming. Rispetto a quanto visto in passato, qui però si fa uno scatto. Nel romanzo sono infatti presenti diversi punti in cui si abbandona l’italiano standard per presentare in altro modo la lingua del passato.
All’interno, grazie all’origine padana di uno dei protagonisti, compaiono innanzitutto parole e frasi prese da dialetti italiani, e in particolare in veneziano e in bolognese (“Ciapla te, coi pògn, la zoca d’un mudnais”, p. 542). Compaiono però anche costruzioni dialettali inventate, per presentare in italiano il dialetto alverniate francese che compare (in due diverse versioni) nella sezione centrale del romanzo. Qui a volte i componenti si mescolano in modo creativo. Per esempio in questa battuta:
No pardre ten con Pascal, cittadino. L’è ’n po’, cuma se dis?, tardo (p. 297)
Il “pardre ten” (‘perdere tempo’) è effettivamente alverniate, ma poi il resto prosegue alternando italiano e una serie di forme provenienti dall’italiano e da dialetti settentrionali, come il “cuma se dis” (‘come si dice?’) usato in Lombardia e in un’ampia zona del Nordovest italiano.
Soprattutto, compaiono diverse pagine in un italiano “popolare”, inventato, che presenta costruzioni regionali di vario genere, deformazioni e malapropismi e viene usato per rappresentare la parlata del popolo di Parigi:
Vardamolà, il popolo di Francia. Che lo volevano sbriciolare come un filone di pane secco, e ci si sono spaccati i denti dal gran ch’era tinco. Che speravano di farlo a pezzetti per poi abbuffarselo ben bene e gli è andato di traverso tutto quanto intero. Che cercavano di mettere una provincia contro l’altra per fottere la rivoluzione e son stati fottuti loro, negoddio! (p. 354)
Particolarmente riusciti da questo punto di vista mi sembrano gli adattamenti di parole francesi: “rivagoscia” e “foborgo” funzionano, per quel che mi riguarda, benissimo. In generale, comunque, ho apprezzato le soluzioni… anche se sospetto che il pubblico italiano sia rimasto un po’ diffidente.
Ammetto poi che la battuta che mi è piaciuta di più è nel risvolto di copertina. In questa sezione di paratesto c’è scritto che cosa si troverà nel romanzo, e all’interno della lista compare anche questo elemento:
La Festa dell’Unità. Si chiama proprio così, ma non è la stessa.
In effetti. Il lettore curioso la troverà alle pagine 354-366.
Wu Ming, L’armata dei sonnambuli, Torino, Einaudi, 2014, pp. 796, ISBN 978-88-06-21413-5, € 21. Letto grazie a un gentile prestito. Dichiaro anche un conflitto d’interessi: nel 2009 sono stato “inserito” come personaggio nel romanzo Altai dei Wu Ming .
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