Partendo per Nairobi avevo messo in programma di fare qualche giro per la città. Non è andata così, ma per ottime ragioni: tutto il tempo disponibile è andato in lavori e incontri produttivi.
D’altra parte, il tempo disponibile si è rivelato davvero ridotto. Causa primaria, il traffico di Nairobi. Non è caotico come in India, ma è intenso, tra macchine, autobus e matatu, e a certe ore si blocca. La notte scorre meglio, ma in compenso il viaggiatore è abbagliato da lampi costanti: sono le videocamere dell’onnipresente servizio di sicurezza, che fotografano tutte le macchine in transito, sparando flash ad alta intensità direttamente negli occhi. Non è un ambiente facile.
Per fortuna a gestire il tutto c’era Esther, l’autista inviata dall’Istituto Italiano di Cultura. Che, come mi raccontava, dopo aver studiato grafica ha iniziato a fare l’autista per Uber; poi è passata a organizzare gruppi di autisti, sempre per Uber; e adesso lavora spesso per l’Istituto. Efficientissima, non solo è riuscita a portarmi sempre a destinazione in tempo ma ha permesso lunghe chiacchierate in inglese. A lei vanno tutti i miei ringraziamenti!
Il lungo tempo trascorso in macchina avrebbe potuto permettere di fare tante foto dal sedile. Tuttavia, la raccomandazione era: tenere chiuso il finestrino… e mettere fuori la macchina fotografica era fuori discussione. I furti dal finestrino sono, a quel che mi è stato detto, comunissimi e pericolosi. Strano a credere, visto che la città sembra molto tranquilla e in alcuni punti quasi idilliaca – nonostante il traffico. Ma anche le escursioni a piedi sono sconsigliate, perfino nelle zone più centrali.
Dalla mia prospettiva, comunque, si vedeva una città dall’aspetto molto occidentalizzato, con segni di benessere diffuso. Le baraccopoli che circondano il centro erano invece invisibili. Farsi un’opinione al volo su un paese straniero è sempre difficile e presuntuoso, e lo è ancora di più da una prospettiva ristretta come la mia. Però mi ha colpito l’evidente energia dell'ambiente, la sensazione di incontrare gente che spesso sta cominciando a vivere meglio dei genitori, e apprezza la novità.
Il combinato disposto di tempo e sicurezza ha comunque fatto sì che l’unica attrazione turistica che sono riuscito a vedere fosse quella in cui ero alloggiato: il Sarova Stanley Hotel (a proposito, bisognerebbe tradurre in italiano la pagina di Wikipedia in lingua inglese). L’ottima organizzazione dell’Istituto mi ha infatti sistemato in questo storico albergo, che oggi è diretto da un italiano, Paolo Marro, che ho incontrato in un paio di occasioni.
Il servizio è stato fantastico, e mi ha permesso di lavorare e riposare al meglio. Però ho approfittato appunto anche del cosiddetto “Heritage tour” gratuito, di cui il direttore va giustamente orgoglioso. Una guida gentilissima e molto competente, Linda, mi ha portato in giro per sale, saloni e suite di lusso.
Il Sarova Stanley, che ha preso la sua forma attuale negli anni Cinquanta, era a suo tempo il punto di partenza tradizionale dei safari e mantiene un aspetto coloniale: soffitti bassi, mogano ovunque, grammofoni e ventagli… Mancano solo i trofei di caccia alle pareti! Non è difficile rendersi conto di quanto gli antichi colonizzatori potessero sentirsi diversi, in un posto come questo: una sensazione che mi è capitato di provare, per esempio, anche al Cafe Batavia di Giacarta.
All’interno dell’albergo, nella terrazza aperta sulla strada (e sugli scarichi del traffico) c’è infine un’istituzione: il thorn tree, l’acacia su cui agli inizi del Novecento i viaggiatori europei attaccavano biglietti e avvisi. Oggi ospita solo foglietti di ringraziamento, scritti rigorosamente in stampatello minuscolo, su ordinati pannelli che circondano la terza reincarnazione dell’albero originale. Però un po’ di nostalgia viene lo stesso.
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