La Grammatica dell’italiano antico a cura di Giampaolo Salvi e Lorenzo Renzi (Bologna, il Mulino, 2010, ISBN 978-88-15-13458-5, 140 €) è un grandioso esempio di ricerca fatta bene. Frutto del lavoro di 36 diversi autori, finanziata dal CNR, dal MIUR e da diverse università italiane, ungheresi e svedesi, si è basata sullo studio di “tutti i testi fiorentini del Duecento e del primo quarto del Trecento” (p. 9); studio reso possibile dall’esistenza del Tesoro della Lingua Italiana delle Origini (TLIO), il corpus informatico realizzato dall’Opera del Vocabolario Italiano per lo studio dell’italiano antico. Il risultato finale è un’ampia descrizione (due volumi di complessive 1745 pagine) della lingua usata a Firenze tra il 1260, data da cui comincia l’uso sistematico del fiorentino scritto, e il 1325. Gli autori hanno tenuto conto anche dei testi fiorentini più antichi, che però sono solo tre, molto brevi, e non molto anteriori al 1260. L’etichetta di “italiano antico” indica quindi qualcosa che forse sarebbe più opportuno chiamare “volgare fiorentino della fine del Duecento e dell’inizio del Trecento”, ma la sostanza è ben definita.
In riferimento a quanto detto due post fa, va poi precisato che, se è normale cercare di ricostruire la grammatica di una lingua morta (dall’ittita al tocario), sono molto rari i tentativi di ricostruire in modo così sistematico le fasi antiche di una lingua viva. La relativa abbondanza di documentazione sul fiorentino di questi anni, la presumibile vicinanza dello scritto al parlato (in assenza di una tradizione letteraria), nonché l’importanza di questo periodo storico per l’evoluzione della lingua italiana hanno reso invece il lavoro della Grammatica sia possibile sia culturalmente sensato. È chiaro che i testi d’epoca a disposizione formano un assieme limitato (poche migliaia di pagine a stampa), ma i curatori, coerentemente con la loro impostazione generativista, hanno ritenuto di non doversi limitare alle forme effettivamente documentate. Hanno quindi compiuto estrapolazioni ragionevoli: anche se tra i testi arrivati fino a noi compaiono solo raramente la I e la II persona plurale dei verbi, i paradigmi sono stati per esempio completati per analogia, senza lasciare spazi vuoti.
Un’analisi linguistica così dettagliata e sistematica permette innanzitutto, in un procedimento circolare, di capire meglio i testi che ci sono arrivati, correggendo in alcuni casi dei veri e propri fraintendimenti linguistici. Succede, per esempio, con le forme del tipo “si è / sì è”, che spesso gli editori di testi antichi presentano e intendono con oscillazioni (il si è pronome, oppure si tratta dell’avverbio sì, ‘così’?). La Grammatica scioglie i dubbi chiarendo il modo in cui l’italiano antico usava, accanto al verbo essere, anche “la variante pronominale essersi” (p. 203), oggi scomparsa ma ben presente all’epoca in frasi come “io non sapea ove io mi fosse” (= ‘ove io fossi’): “il clitico riflessivo elide generalmente la vocale davanti a una forma verbale che comincia per vocale e questa elisione avviene praticamente sempre davanti alle forme di essere e avere” (p. 204). Di conseguenza, tutti i casi in cui un testo scritto riporta “si è” per esteso andranno interpretati come “così è”, e non come occorrenze del verbo essersi.
Tuttavia, anche la migliore analisi di una lingua scritta non può permettere di ricostruire in pieno il parlato. Il ritmo di una lingua (quella che spesso viene chiamata “la calata”) non lascia tracce scritte. La curva intonativa delle frasi non è individuabile con precisione, eccetera. In mancanza di registrazioni o di descrizioni scientifiche come quelle condotte a partire dal Novecento, questi aspetti non potranno mai essere perfettamente ricostruiti per nessuna lingua anteriore al 1860. Il quarantaduesimo e ultimo capitolo della Grammatica dell’italiano antico, scritto da Pär Larson, ricorda quindi giustamente che “ogni tentativo di analisi rigorosamente fonologica basata esclusivamente su fonti scritte” (p. 1515) deve per forza di cose essere “ipotetico e provvisorio”; e non a caso, come raccontava Lorenzo Renzi in un seminario tenuto a Pisa la settimana scorsa, questo delicatissimo settore della Grammatica è l’unico in cui le indagini hanno reso necessario il controllo dei manoscritti, in aggiunta all’elaborazione dei testi forniti dalle edizioni moderne.
Nel caso del fiorentino del periodo 1260-1325 siamo peraltro abbastanza fortunati. La lingua è vicina all’italiano moderno, e già nel Quattrocento ci sono state descrizioni grammaticali del fiorentino che, pur essendo pre-scientifiche, forniscono indicazioni utili. Resta il fatto che le fonti scritte non possono fornire indicazioni sicure su fenomeni anche vistosi, a cominciare dalla presenza della “gorgia toscana”... il tratto di pronuncia per cui, semplificando un po’, oggi i fiorentini dicono “la hasa bianca”, eccetera. Tecnicamente si tratta della spirantizzazione delle occlusive sorde che si trovano tra due vocali, e il fiorentino di sicuro la praticava già agli inizi del Cinquecento. Qual era però la situazione nel Trecento? O, in altri termini, Dante diceva “la casa” o “la hasa”? Cosa strana, non è facile rispondere a questa domanda, perché la spirantizzazione dipende dal contesto (manca, quindi, a inizio di frase), e fenomeni di questo tipo raramente vengono registrati dalla scrittura: se chi parla dice sia “casa mia” sia “la hasa”, è probabile che la parola venga scritta sempre allo stesso modo, indipendentemente dalla pronuncia effettiva nei singoli casi.
Questo, d’altra parte, è il caso più vistoso di incertezza (Larson lo descrive a p. 1530). Gli altri punti in cui la fonologia del fiorentino 1260-1325 lascia dubbi sono, per fortuna, molto più circoscritti. Se poi si escludono i dubbi, ben presenti anche nelle lingue vive, sul valore fonematico di una determinata opposizione (per esempio, esisteva un’opposizione reale tra /j/ e /i/, p. 1526? O tra /w/ e /u/, p. 1527?), la casistica è ancora più limitata. Rimangono in sostanza questi:
- /je/ preceduto da r poteva essere realizzato con un’iniziale semivocalica, cioè /i̯e/ (p. 1522)?
- esisteva un dittongo tonico /je/ in sillaba chiusa (p. 1523)?
- le sequenze “-cuo-” e “-guo” venivano pronunciate come labiovelare + sillaba, come ritiene anche Larson, o come consonante velare + dittongo (p. 1523)?
- le sequenze /ae/, /ea/, /ue/ erano in realtà dittonghi discendenti?
- in parole come “iudice” o “iurare” l’iniziale veniva pronunciata /j/ o, come ritiene anche Larson, /dƷ/ (p. 1526)?
- qual era l’esatta distribuzione delle lunghezze consonantiche, oltre all’opposizione breve-intensa (pp. 1529-1530)?
- qual era esattamente la distribuzione di /s/ e /z/, cioè di “s sorda” e “s sonora” (p. 1537)?
- era possibile, cosa a cui Larson non crede, far cadere la vocale finale di una parola davanti a parole inizianti per /ʃʃ/ (p. 1538)?
- esistevano davvero, come crede anche Larson, le occlusive palatali /c/ e /ɟ/ (p. 1544)?
- c’era una tendenza, cosa a cui Larson non crede, allo scempiamento delle consonanti doppie protoniche, o almeno un’oscillazione nella loro pronuncia (p. 1545)?
Detto questo, torniamo alla domanda di base: “è possibile ricostruire con precisione la lingua parlata del passato?” Per il fiorentino del 1260-1325, a questo punto è chiaro che la risposta è: “in buona parte sì, anche se per alcuni tratti del parlato è impossibile arrivare a conclusioni sicure”. Resta il fatto che chi volesse basarsi su questa Grammatica per simulare per iscritto un dialogo avvenuto per le strade di Firenze nel 1301, con un po’ di lavoro potrebbe ottenere un risultato perfettamente verosimile – e che, recitato ad alta voce da un fiorentino dell’epoca, non avrebbe attirato l’attenzione di nessuno.
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