Come mi è capitato di osservare in diverse occasioni, io credo che ci sia una forte tendenza a sottovalutare la conservatività del linguaggio. Lessico e sintassi si tramandano di regola da una generazione all’altra con minime alterazioni. In diversi punti del mondo, le lingue parlate sono rimaste riconoscibilmente le stesse fin da quando esiste una documentazione storica (dal greco in Grecia fino al cinese in Cina...). Gli scossoni e gli spostamenti, per le popolazioni che vivono di agricoltura, sono rari.
La Turchia però sembra un’eccezione – e ne ho parlato un po’ con gli studenti di Adana. In fin dei conti, oggi in Turchia la lingua dominante è il turco, che è arrivato sul territorio solo a partire dall’XI secolo e ha rimpiazzato una serie di lingue che aveva una storia di millenni. Nella realtà, però, le cose sono un po’ più sfumate. Un po’ perché il turco stesso sembra enormemente conservativo: la guida Lonely Planet che ho usato per il viaggio proclama baldanzosamente che gli attuali turchi di Turchia non hanno problemi a parlare con i turchi che ancora oggi vivono nelle regioni d’origine del gruppo etnico, in Cina e in Mongolia, nonostante appartengano a gruppi che si sono separati da più di un millennio. Probabilmente è un’esagerazione, ma non sarebbe un caso unico, visto per esempio il modo in cui gli italiani riescono a parlare con buona parte delle popolazioni di lingua romanza...
Poi, e soprattutto, solo il 75% della popolazione turca oggi parla turco, al confronto del 95% di italiani che sono in grado di parlare italiano (per questi numeri, che avrebbero bisogno di molte precisazioni, mi rifaccio alle schede di Ethnologue); il restante 25% parla altre lingue, a cominciare dal curdo. Come si è arrivati a questo 75%, comunque?
Oggi la Turchia ha 70 milioni di abitanti, ma nel 1923, al momento dell’indipendenza, ne aveva circa 14 milioni. Secondo alcune stime (e qui faccio riferimento a un pulviscolo di voci di Wikipedia in lingua inglese, a cominciare da quella su Languages of Turkey), questa era anche, più o meno, la popolazione che il territorio aveva attorno all’anno Mille – vedo citate stime sui 12-13 milioni di abitanti. Quando i turchi arrivarono dall’Asia centrale, nel giro di un paio di secoli conquistarono quasi tutta l’Anatolia e poco dopo il 1453 eliminarono anche le ultime tracce di potere bizantino. Ma quanti erano? Stime non ne ho viste, ma a occhio direi che si può andare da un minimo di due-trecentomila fino a due-quattro milioni con le varie ondate e i vari gruppi. C’è un buon margine di errore, ma penso non si sbagli troppo nel dire che il semplice trasferimento fisico degli individui portò le popolazioni di lingua turca a essere, alla fine del Medioevo, un 20-25% del totale degli abitanti.
Dopodiché per riproduzione o assimilazione, i turchi aumentarono. Non credo però che nel 1914 fossero molto più del 50% della popolazione: una crescita non poi così rapida, visto che richiese quasi mezzo millennio di totale dominio politico sul territorio.
Poi arrivò la Prima guerra mondiale. Su quanto avvenne negli anni successivi le cifre sono molto discusse, ma molte stime ritengono che nel 1914 fossero presenti nell’attuale Turchia due milioni di armeni e un milione e mezzo di greci (cioè, assieme, forse un 25% della popolazione complessiva). Dieci anni dopo, queste minoranze erano scomparse. Gli armeni erano stati uccisi o espulsi durante il Genocidio armeno del 1915, mentre, in modo appena meno drastico, con il Trattato di Losanna del 1923 la popolazione greca era stata trasferita in Grecia e in parte sostituita dai turchi residenti in Grecia. Insomma, in soli dieci anni il Novecento portò a uno sconvolgimento demografico paragonabile a quello che si era verificato nel mezzo millennio precedente.
La cosa sconvolgente è che di quest’ultimo trauma le tracce sono ancora oggi ben visibili – almeno se si riesce a parlare un po’ con gli abitanti. Ad Adana si tirano su palazzoni e centri commerciali “dove c’erano le case degli armeni” (che in città erano stati massacrati già nel 1905 – mentre gli ultimi residenti vennero spinti a forza nel 1915 a morire di fame nel deserto della Siria); a Tarso le case ci sono ancora, “anche se gli armeni non ci sono più... qualunque cosa sia successa” (come mi è stato detto...). In Cappadocia, Ürgüp è un villaggio marziano: scavato nella roccia in un panorama incredibile, e sorvolato la mattina da sciami di mongolfiere, come se venisse fuori dall’illustrazione di un libro di fantascienza. Ma era all’origine un villaggio greco, svuotato nel 1923, e il tassista che mi ci ha portato raccontava di come nel 1923 c’era arrivata a piedi la sua famiglia, scacciata da Salonicco, l’Anatolia con mesi e mesi di cammino. “E quella era una chiesa dei greci, ma adesso è stata trasformata in una casa...”
In un mondo di popolazioni sedentarie, le lingue non cambiano in fretta. Quando succede, però, vuol dire che è successo qualcosa di veramente terribile; e, per fortuna, di eccezionale.
Come si traduce broligarchy?
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Un neologismo usato in associazione alla futura presidenza Trump che
risulta poco trasparente senza alcune informazioni aggiuntive.
4 giorni fa
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