Nell’ultimo anno accademico, in aggiunta a due corsi / moduli da 6 crediti per la laurea triennale di Informatica umanistica e ai corsi in India, ho fatto un modulo da 6 crediti per la laurea magistrale di Informatica umanistica e, assieme a colleghi, ho coordinato un seminario da 6 crediti. In quasi tutti i casi ho stabilito che la prova finale includesse un lavoro di scrittura: al minimo, due pagine di testo in italiano per gli studenti indiani del Master, dieci pagine di voci di Wikipedia per il Laboratorio di scrittura della triennale, e soprattutto, una relazione di una ventina di pagine per i due corsi della magistrale.
I risultati sono stati variegati e istruttivi. Lasciando da parte il discorso su India e triennale, le relazioni per la magistrale hanno mostrato un quadro che conoscevo già bene, ma ha fatto emergere alcuni punti importanti. Innanzitutto, naturalmente, a livello di ortografia e di frase gli studenti di una specialistica in Informatica umanistica sanno in genere scrivere bene e correttamente, producendo testi “professionali”, che dal punto di vista linguistico non attirerebbero le critiche di nessuno se fossero portati in pubblicazione in sedi adeguate. A parte poche eccezioni, la scrittura della tesi a fine corso dovrebbe poi risolvere buona parte delle incertezze residue. Il che è in sostanza ciò che ci si aspetta da un percorso di laurea, nonostante le chiacchiere da giornale.
C’è però qualche elemento su cui occorre lavorare. Da un lato, la presenza di alcuni casi di scrittura non ancora all’altezza degli standard professionali. Dall’altro, alcune incertezze sul senso generale dell’operazione. Per esempio, in alcuni casi non sembra che gli studenti inquadrino correttamente il tipo di testo da preparare, e in alcuni casi le relazioni sono addirittura formate dal collage di lunghi brani ripresi da testi già esistenti (di solito, correttamente citati).
Naturalmente, una relazione universitaria per la laurea magistrale dovrebbe essere qualcosa di diverso: un elaborato critico, in cui non ci si limita a riassumere un testo altrui ma si combinano in modo critico fonti di informazione diverse usandole per fornire una risposta a una domanda nuova. Operazioni del genere sono importanti non solo di per sé, come indice della capacità di compiere operazioni complesse, ma anche come addestramento al lavoro: chiunque operi in posizioni da laureato deve essere in grado di fornire pareri combinando giudizi diversi, riscrivere regolamenti o documenti interni combinando in modo intelligente i suggerimenti provenienti da più persone, preparare documentazione completa e coerente, eccetera.
Niente di straordinario in questo. Le cose non si imparano da un giorno all’altro, e se uno studente non ha imparato come funziona un genere di testo, c’è ben poco da fare: occorre spiegarlo e fare esercizi. Su questo spero ci sia la possibilità di lavorare più avanti – anche se dal lato mio, nel prossimo anno accademico non avrò neanche un corso della laurea magistrale, e non avrò quindi modo di mettere alla prova la teoria.
Mi colpisce però che anche in Academically adrift di Arup e Roska (che ho già citato su questo blog) si individui il requisito delle venti pagine come punto di riferimento per gli studenti americani. Anzi, gli autori lo considerano solo un “modest requirement” per un corso serio (loc. 1482), e ritengono che debba essere accoppiato ad almeno 40 pagine settimanali di lettura. Solo il 42% degli studenti da loro esaminati aveva però già seguito almeno un corso con entrambi i requisiti: 50% dei casi non avevano seguito neanche un corso che avesse queste richieste per la scrittura, e in un terzo dei casi non avevano seguito un corso con queste richieste per la lettura. Gli autori ritengono quindi, non irragionevolmente, che questa situazione sia una delle ragioni per cui gli studenti oggetto della loro ricerca ottengono miglioramenti molto lievi in alcune abilità centrali. L’idea degli autori è che, in fin dei conti, gli studenti “learn when they study” (loc. 1901, come citazione da un’analisi precedente), e i risultati delle loro indagini confermano questa idea.
Per questo motivo, ho deciso di portare al mio Consiglio di Corsi di studio una richiesta: compatibilmente con i regolamenti attuali, incoraggiare i docenti a inserire tra i requisiti di ogni esame della magistrale, ogni volta che ciò sia possibile e ragionevole, la stesura di una relazione di almeno venti pagine. I corsi in cui questo si può fare non sono forse moltissimi, ma mi sembra comunque importante spingere in una determinata direzione.
Inoltre, per far funzionare la strategia le prove d’esame devono includere un modo per fornire riscontri agli studenti. Nel caso mio, da molti anni prima di assegnare un voto faccio una valutazione dettagliata di ogni relazione, presento i risultati agli studenti in un colloquio “intermedio” e chiedo di eseguire una serie di interventi, controllando il modo in cui vengono compiuti. Per una relazione di venti pagine ho visto che questo significa in media impiegare un’ora e mezzo per la prima valutazione, venti minuti per il colloquio intermedio, e circa un’ora per il controllo della seconda versione... sono quasi tre ore di lavoro per ogni esame, più l’esame orale vero e proprio. La procedura è molto più onerosa dei classici esami orali (che a Pisa in genere durano da venti a sessanta minuti), ma, anche se non ho riscontri oggettivi sugli effetti, credo che ne valga la pena.
Come si traduce broligarchy?
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Un neologismo usato in associazione alla futura presidenza Trump che
risulta poco trasparente senza alcune informazioni aggiuntive.
4 giorni fa
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