lunedì 13 ottobre 2014

Parlare italiano tra Siria e Turchia


Sebastiani, Prima speditione
I giornali italiani hanno dato spazio nel fine settimana a una testimonianza tragica ma con uno strano risvolto linguistico. All’interno di un video che mostra la combattente curda Arin Mirkan, che ha compiuto un attacco suicida contro le forze dell’ISIS a Kobanê, si sente anche un brevissimo scambio di sottofondo in italiano. Anche al mio orecchio, in effetti, sembra proprio che nel video una voce dica in modo chiaro “Eh, che ti devo dire?” in italiano, e che un’altra voce inizi a rispondere con un “Sì”.

Il coinvolgimento di italiani nel conflitto in corso in Siria e in Iraq è stato molto discusso, soprattutto per la presenza di volontari italiani nell’ISIS. Che uno scontro così tragico e distante possa coinvolgere anche italiani, apparentemente, colpisce l’opinione pubblica nazionale. Tuttavia, questa non è certo la prima occasione in cui in quei territori passano italiani che parlano, o addirittura insegnano, italiano.
 
Per caso, all’interno del mio corso di Linguistica italiana II ho mostrato giusto la settimana scorsa una testimonianza (finora, mi sembra, non notata) di uso dell’italiano in quella zona, nel Seicento. Non si tratta di un manoscritto, ma di un libro a stampa, pubblicato da Mancini a Roma nel 1666, in cui il carmelitano scalzo Giuseppe Sebastiani di Caprarola raccontò la prima delle sue due missioni in India. In quest’epoca di continui progressi, il libro di Sebastiani è oggi consultabile e scaricabile come PDF sul sito della Biblioteca Statale della Baviera e in parallelo, sia pure con una risoluzione un po’ peggiore, su Google Books. Accessibilissimo, quindi.
 
Va detto che dal Cinquecento in poi la via più comoda per andare in India era di gran lunga quella marittima, che per le navi a vela richiedeva la partenza in primavera dall’Europa e permetteva l’arrivo a destinazione in settembre, dopo aver sfiorato il Brasile e circumnavigato l’Africa. Sebastiani invece, assieme ad altri tre confratelli, prese la via di terra, più faticosa, che gli portò via più di un anno. Arrivato a San Giovanni d’Acri in Palestina il gruppo di carmelitani prese infatti la normale strada delle carovane per Baghdad, che invece di tagliare in linea retta attraverso il deserto della Siria seguiva (comprensibilmente) un ampio arco a nord, lungo l’attuale confine turco-siriano, fino ad arrivare a Mossul e al Tigri. L’episodio che mi interessa compare nel punto in cui Sebastiani parla della sosta della sua carovana a “Cocessar”, cioè l’attuale città turca di Kızıltepe, poco distante da Mardin. Sebastiani non passò direttamente da Kobanê, che ai suoi tempi non esisteva e che si trova 200 km più a est di Kızıltepe; però passò pochi chilometri più a nord, dall’attuale Birecik (Elbir) e da quelle che ora sono le rovine del caravanserraglio di Çarmelik (Ciarmelik) a Büyükhan, diretto a Şanlıurfa (Orfa). Durante il viaggio trovò modo di lamentarsi degli attacchi sia dei beduini sia dei curdi, oltre che della generale corruzione del regime ottomano.
 
Il punto che più importa della sua testimonianza, per quanto riguarda la storia dell’italiano, è costituito comunque da queste frasi (p. 47; modernizzo leggermente l’ortografia):
 
…già tenevo concertato con un armeno d’andar per acqua [cioè, lungo il Tigri]. Si chiamava l’armeno Arachel, era di Ciolfanuova, giovine d’età, e mercante ricco, quale volendo passare ad Agra nell’Indie con un altro armeno d’Aleppo, detto Amurat, s’accompagnò con noi per camino, e spesse volte il giorno veniva dal suo al nostro padiglione per imparare a parlare, e leggere italiano, il che faceva con molto frutto, e si mostrava gratissimo, avendo sempre singolarissimo pensiero di noi.
 
Il testo in sé non richiede molte spiegazioni al lettore italiano moderno, a parte, direi, “Ciolfanuova” o “Nuova Julfa”, il quartiere di Isfahan in cui lo Scià di Persia aveva da pochi anni fatto trasferire gli armeni della città di Julfa. Della presenza armena ad Agra in India, capitale dell’Impero Mogol, ho poi già scritto qualche anno fa, raccontando della mia visita al cimitero cattolico della città, che ospita anche diversi italiani di una certa fama. Una volta detto che il “padiglione” è la “tenda”, il resto dovrebbe essere ben comprensibile.

Quel che richiede forse qualche spiegazione in più è il contesto. Nel 1656, da Amsterdam fino all’Oceano Indiano passando per Venezia, la rete commerciale armena che aveva il suo centro a “Ciolfanuova” svolgeva infatti un ruolo fondamentale di intermediazione. In contemporanea, come spero di illustrare meglio prossimamente, l’italiano aveva una funzione importante di lingua franca del commercio nel Medio Oriente e nei territori ottomani. Non stupisce quindi che i mercanti armeni fossero pronti a imparare l’italiano, avendone l’occasione. Quel che stupisce è semmai che volessero farlo pur essendo diretti ad Agra. Se, appunto, il ruolo dell’italiano come lingua franca del commercio nell’impero ottomano è abbastanza noto, dalle mie letture recenti, un po’ a sorpresa, sta invece venendo fuori che questo ruolo si estendeva più a est di quanto oggi si crede, e lasciava tracce anche in Persia e in India.
 
Avrò modo di entrare nei dettagli più avanti. Per il momento, mi sembra sufficiente ricordare che da secoli viviamo in un mondo piuttosto piccolo, e che la distanza da Kobanê all’Italia, in una direzione o nell’altra, è minore di quanto gli italiani stessi a volte sembrano credere.
 

2 commenti:

Watkin ha detto...

Post molto interessante, grazie :)

Mirko Tavosanis ha detto...

Ciao, Watkin!

Grazie per l'elogio... Spero di dedicare tra poco qualche altro post a questo argomento!

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