sabato 22 ottobre 2011

Risposta a Claudio Giunta: no, le facoltà umanistiche hanno molti ruoli importanti

La settimana scorsa Claudio Giunta ha pubblicato sul Domenicale del Sole-24 ore un lungo articolo, ripresentato qualche giorno dopo, in versione più ampia, sul suo blog: Alcune considerazioni sulle facoltà umanistiche.

Claudio Giunta è oggi, probabilmente, la persona più intelligente che in Italia si occupi in pubblico di questi argomenti. La tesi da lui presentata nell’articolo è chiara, ragionevole e ben argomentata – e, basandosi su riflessioni già presentate nel suo bellissimo libro L’assedio del presente, ha una profondità ben diversa rispetto alle classiche tesi da giornale. Io credo però che sia anche profondamente sbagliata, sia nelle premesse sia nelle conclusioni.

Il punto di arrivo del ragionamento di Giunta viene presentato in modo diretto nelle prime righe del testo:

Dato che le facoltà umanistiche offrono pochi sbocchi lavorativi, sarebbe il caso che alle facoltà umanistiche si iscrivessero in pochi, e non in tantissimi come succede oggi.

In questa definizione c’è il nocciolo dell'errore. Giunta implica l’esistenza di un nesso rigoroso: l’iscrizione a una facoltà universitaria deve essere fatta in funzione di uno “sbocco lavorativo”. Se lo sbocco non c’è, meglio non iscriversi. Questa idea è molto comune in Italia, e in generale è molto diffusa nel mondo. Ciò non toglie che sia sbagliata, o meglio, che rappresenti solo una parte della verità (a scanso di equivoci: è giustissimo e ragionevole che la formazione universitaria presti molta attenzione agli sbocchi lavorativi!), e che la parte mancante sia tale da rendere non valido il resto del ragionamento di Giunta.

A monte, mi colpisce anche che il ragionamento presentato da Giunta sia poco documentato, e che si basi su impressioni più che su riferimenti a statistiche, anche per alcuni punti chiave; però questo è un altro discorso.

La laurea nel mondo reale
Un primo aspetto di cui tenere conto: la laurea nel mondo reale è anche il famoso “pezzo di carta”. Cioè, limitandosi al caso italiano, il pezzo di carta che, posseduto da un dipendente pubblico, spesso permette di avere un avanzamento di carriera; il cui possesso è indispensabile per presentarsi a molti concorsi (per posti più o meno temporanei); che viene valutato quando ci si presenta per molti lavori nel settore privato. Eccetera. Né questa è un’aberrazione solo italiana: negli Stati Uniti, terra di cui spesso si vanta la capacità di dare opportunità a tutti, l’istruzione universitaria viene da tempo considerata la premessa indispensabile per qualunque lavoro non meccanico. Chi non è stato all’università, si dice con un po’ (ma non troppo) di esagerazione, può fare al massimo le pulizie, o risolcare gli pneumatici.

Personalmente, credo che una situazione del genere sia aberrante. Ciò non toglie che sia reale. Né che in Italia i laureati, inclusi quelli delle facoltà umanistiche, continuino a guadagnare più di chi ha titoli di studio inferiori (anche se questi dati devono essere discussi più in dettaglio – cosa che nessuno sta facendo con un minimo di visibilità). Né che i laureati in Lettere e Filosofia abbiano, tutto sommato, una buona capacità di inserimento nel mondo del lavoro.

Certo, l’istruzione superiore ha aspetti di selezione sociale che, per quanto temo siano inevitabili, non mi piacciono affatto. Non mi piace neanche un sistema in cui il dipendente X, dotato di capacità Y, ottiene un avanzamento di carriera solo perché si è procurato il pezzo di carta Z (anche se il sistema non è privo di ragioni... e su questo, cioè sul come salvarne i lati positivi eliminando quelli negativi, ci sarebbe molto da discutere). Altri aspetti di questa situazione sembrano però decisamente più virtuosi. Per esempio, siamo sicuri che una ragazza che va a lavorare negli uffici di un’azienda vinicola non abbia alcun beneficio dal fatto di essersi laureata, poniamo, in Storia? O che avrebbe fatto un investimento migliore andando a fare lo stesso lavoro, ma al termine della scuola secondaria? O magari, dopo essersi laureata in Fisica? In altri termini: siamo sicuri che tra questo ventaglio di possibilità la laurea in Storia sia stata la scelta peggiore, anche per l’impiegata dell’azienda vinicola?

Per il resto della discussione, partirò comunque dal presupposto che l’effetto “pezzo di carta” non esista, e che gli individui, attraverso qualche magica forma di empatia, vengano perfettamente valutati a vista per ciò che sanno e per ciò che sanno fare. Quale sarebbe il posto della laurea umanistica in questo mondo di fiaba?

Competenze umanistiche
Il mondo del lavoro in Italia chiede da tempo una cosa precisa al sistema di formazione italiano: studenti con migliori competenze generali. In sostanza, più intelligenti, più capaci, più adattabili (li vorrebbe, beninteso, anche di scarse pretese economiche, pronti a spostarsi da un capo all’altro del mondo... ma, che io sappia, solo occasionalmente si chiede alle università di gestire il “ridimensionamento delle aspettative”, o cose simili). Ogni tanto arrivano richieste più specifiche, ma la verità è che non sono richiesti sistematicamente “più architetti”, o “più chimici”. In alcuni settori è indispensabile avere una laurea in una determinata materia per capire il lavoro che si andrà a fare, ma direi che l’ampia maggioranza dei lavori “da laureati” non richiede nulla del genere.

Tuttavia, non esistono, né avrebbero senso, corsi di laurea in “intelligenza” o “pensiero critico”. Né potrebbero esistere, perché queste capacità non si danno in astratto: esistono solo in quanto applicate a settori e situazioni. Laurearsi è però considerato di regola un ottimo modo per sviluppare appunto queste capacità. In fin dei conti, se nel mondo del lavoro la laurea pesa, non è solo per un capriccio della storia; è perché, secondo a un’impressione diffusa e probabilmente corretta, quando si tratta di dirigere un’azienda un laureato preso a caso è più bravo di un non-laureato preso a caso.

E per quanto riguarda il tipo di laurea? In un punto del suo intervento, Giunta dice polemicamente: “Se uno vuole andare a dirigere un’azienda studia economia, non i presocratici”. Questo non è stato affatto vero in passato, e credo che in buona parte non sia vero neanche oggi, nelle meccaniche reali con cui “si diventa dirigenti”. Giunta nota, sempre polemicamente, che in alcune valutazioni “un laureato in Filologia romanza pesa quanto un laureato in Ingegneria”; però a volte è assolutamente corretto pesare le cose in questo modo. Se è ragionevole che un’azienda di imballaggi tecnici sia diretta da un ingegnere, è tutt’altro che irragionevole che il direttore di una catena di negozi, o il direttore generale di un ministero, sia un laureato in Lettere. E, di fatto, questo avviene regolarmente, senza che ci si trovi nulla di strano... anzi, in alcuni posti sarebbe strano trovare un ingegnere. La tecnocrazia, che funziona così bene in alcuni settori, rivela drammatiche insufficienze negli altri. Non è certo un caso se al governo di quasi tutte le democrazie si trovano di regola laureati in materie umanistiche (generalmente legge o affini, ma non solo), e non ingegneri o chimici – con qualche eccezione, tipo Angela Merkel. In Italia, circa un sesto della “classe dirigente” è fatto da laureati in materie umanistiche, che sono molto meno di un sesto del totale dei laureati (Élite e classi dirigenti in Italia, a cura di Carlo Carboni, Bari, Laterza, 2007, p. 27).

Ciò non vuol dire, beninteso, che il modo migliore per “dirigere un’azienda” sia studiare i presocratici, e che studiare economia sia ininfluente; vuol dire però che per certi tipi di attività il percorso è molto, molto meno definito rispetto a quello, per esempio, in cui per progettare una nave occorre aver fatto ingegneria navale, e che le lauree umanistiche non partono affatto da una posizione di svantaggio.

Dal mio punto di vista, inoltre, non posso fare a meno di notare che le competenze umanistiche sono strettamente legate ad alcune delle capacità più richieste nelle fasce alte del mondo del lavoro: saper comunicare e, drammaticamente, saper scrivere. Su questo, c’è ben poco da fare. La formazione umanistica si basa su questo genere di competenze ed è del tutto normale che qualche anno passato a studiare libri e a parlare di libri aiuti a scrivere (con le riserve che descriverò meglio in chiusura).

In aggiunta a questo, anche il famoso “pensiero critico”. Ho già citato Academically adrift, uno studio recente di Arum e Roska sui risultati (o meglio, sui mancati risultati formativi) delle università americane; ho però solo accennato all’aspetto distributivo di questi risultati. Gli autori notano infatti che ci sono due eccezioni alla regola per cui gli studenti universitari non fanno passi avanti né nella capacità di analizzare i problemi né in quella di comunicare: le facoltà scientifiche e le “humanities”. Economia e commercio o ingegneria, al confronto, non fanno fare passi avanti, anzi, in alcuni casi alcuni tipi di capacità addirittura regrediscono, rispetto alla scuola superiore.

Certo, una laurea in Filosofia non è automaticamente una garanzia di “pensiero critico” (a vedere alcuni esempi, si sarebbe anzi tentati di supporre il contrario...). Però le facoltà umanistiche hanno in questo settore cruciale un’importanza altrettanto cruciale. Giunta scrive:

Non dubito che una persona con un’eccezionale preparazione filosofica possa diventare un grande manager, e non dubito che a un grande manager farebbe bene passare qualche ora ogni giorno a leggere Spinoza, ma lo scopo di una facoltà umanistica di massa non può essere quello di ingentilire i manager.

Vero, però non c’è contraddizione tra le due cose. La capacità di analizzare problemi e quella di comunicare in modo effettivo non sono strumenti per i manager; sono strumenti che servono anche ai manager, e che con l’attività di manager sono stati oggettivamente collegati fino a oggi.

Effetti sulla persona
La cultura umanistica ha un effetto positivo sulla persona? Anche su questo Arum e Roska hanno diverse cose da dire – in particolare, per gli aspetti sociologicamente misurabili, tipo il rapporto tra il titolo di studio e la partecipazione a organizzazioni di volontariato o l’andare a votare alle elezioni. Giunta è molto più deciso, e vale la pena qui di citare la sua descrizione per intero:

La maggior parte degli studenti seri e motivati non ha fatto ‘un buon liceo’ ma proviene da scuole nelle quali l’istruzione umanistica è più carente: gli istituti professionali, i tecnici, l’arcipelago di scuole sperimentali che le varie riforme e le varie autonomie hanno prodotto. «Ho fatto il liceo socio-psico-pedagogico», mi sento spesso dire agli esami da studenti che non sanno chi siano Weber, Freud o Rousseau, e che si sono iscritti a Lettere perché finalmente, e a buon diritto, vorrebbero impararlo. Che fare con questi studenti? Sono la prova dell’esistenza di un ampio, diffuso desiderio di istruzione: arte, letteratura, storia, musica. È un desiderio sacrosanto, preziosissimo per la società, e su cui è possibile costruire. Sembra non risentire del dumbing down indotto dai media; anzi, sembra crescere a mano a mano che il dumbing down dei media si fa più sfacciato e volgare. Sono spesso studenti molto diligenti, e persone anche umanamente eccezionali, disposte a fare veri sacrifici per imparare cose che, lo sanno benissimo, non li aiuteranno molto quando si tratterà di trovare un lavoro.

Ma il bagaglio di nozioni che posseggono quando entrano all’università è molto leggero. E non è solo questione di quanto poco sanno, ma – soprattutto – di un atteggiamento, di una forma mentis che è inadeguata allo studio. Questi studenti cambiano, maturano, crescono a vista d’occhio di mese in mese, ma non riescono veramente a recuperare il ritardo: l’università li migliora, ma non basta a fare di loro dei buoni studiosi o (questo è il primo obiettivo delle facoltà umanistiche) dei buoni insegnanti. Più che una formazione spendibile nella vita, l’università finisce per essere una forma di terapia, o un’educazione sentimentale. È qualcosa, certo, ma forse non è abbastanza.


Giunta dice addirittura che questi studenti “formano spesso la grande maggioranza degli iscritti”. Non è ciò che vedo io, è la mia visione è senz’altro meno ottimistica di quella di Giunta. Però ci vorrebbe senz’altro uno studio imponente prima di poter decidere se sono più rappresentative della società italiana le impressioni di un docente dell’università di Trento o quelle di uno di Pisa. Ma se si ritiene che il ritratto di Giunta sia corretto, si riesce a trovare una motivazione migliore per incoraggiare le iscrizioni alla facoltà umanistiche? Esiste qualunque altro tipo di formazione in cui “spesso la grande maggioranza” degli studenti “migliora”, e addirittura migliora “a vista d’occhio”? E possa produrre effetti che, per quanto non precisati, probabilmente sono estremamente positivi per la società nel suo assieme, oltre che per i singoli individui?

Misurare in modo oggettivo questo tipo di “miglioramento” è difficile. Arum e Roska ci hanno provato e non sono andati molto avanti. Io, come accennato, non credo che i guadagni siano così vistosi e diffusi; ma forse questo avviene solo perché sono un docente peggiore rispetto a Claudio Giunta. Prendendo quest’ultimo sulla parola, però, mi chiedo se ci siano modi migliori per fornire una “terapia” o “un’educazione sentimentale” ai diciannovenni italiani che ne abbiano bisogno. Certo, forse inviarli per cinque anni a fare volontariato in Africa sarebbe più produttivo... ma anche molto più costoso.

La cultura generale
Nel mondo moderno, mi sembra importante che un cittadino italiano sappia per esempio identificare la collocazione geografica del Bangladesh, o scrivere una lettera in buon italiano, o in inglese passabile, o poter confrontare in modo ragionevole l’impero britannico e quello sovietico, o raccontare la trama di un romanzo letto di recente... Giunta ha ben presente questo genere di richieste. Ritiene però che la strada principe per arrivarci sia quella di curare la formazione degli insegnanti, più che la cultura diffusa.

Ora, per migliorare la cultura diffusa italiana in questi settori tipicamente umanistici non avrebbe naturalmente senso l’idea, giustamente irrisa da Giunta, di “laureare in Lettere l’intera nazione”. Però non mi sembra che sia neanche il caso di scoraggiare chi già di suo vuole approfondire questo genere di studi, anche se non andrà mai a fare l’insegnante. Né gli effetti sarebbero necessariamente marginali. Nelle analisi sociologiche è ben noto che molti tipi di conoscenza si diffondono attraverso canali informali, che non sono solo le conferenze pomeridiane e le mostre di cui parla (in modo giustamente critico) Giunta. Quanto conta, per la cultura diffusa, avere il cugino che è in grado di parlare arabo o che conosce la storia tedesca? Quanto conta avere genitori che leggono libri e che sono capaci di ragionare al di fuori dei luoghi comuni su un determinato argomento?

Certo, non è facile determinare il livello della discussione culturale “media” in Italia. Del resto, non è che nel mondo occidentale ogni conversazione sia un meditato scambio d’idee tra persone di ampia cultura che vedono in modo intelligente ogni problema. Nel caso italiano, però, mi sembra manchino in modo clamoroso gli spazi di discussione di alto livello ma non specialistici. Perfino i migliori quotidiani italiani, come il Corriere della sera e il Sole-24 ore, fanno una figura misera a fronte non si dice del New York Times ma di Le Monde o del Guardian di Manchester. La saggistica umanistica, in generale, ha un mercato di nicchia. Un giudizio condiviso da molti è: a confronto con gli europei di pari livello sociale, gli italiani leggono poco, sanno poco le lingue, scrivono poco e sanno poco del mondo e della sua storia. Non vedo come l’esistenza di una comunità più ampia di persone che abbiano ricevuto un’istruzione universitaria in materie umanistiche possa peggiorare questa situazione... ma vedo invece molti modi in cui può migliorarla. L’antiintellettualismo non è certo una malattia solo italiana, ma negli ultimi cent’anni l’Italia ha dato parecchio di più di quel che le toccava, da questo punto di vista.

I problemi
In conclusione, visto che io lavoro in una facoltà umanistica, il mio è (ovviamente) un parere di parte. Tuttavia, mi sembra che ci siano motivi oggettivi e ampiamente condivisibili per invitare gli studenti a iscriversi alle facoltà umanistiche, anche in assenza di posti di lavoro direttamente collegati.

Ci sono, naturalmente, delle riserve. La prima è che si deve essere ben chiari. Uno studente di facoltà umanistica deve avere ben chiaro il fatto che non c’è alcun “posto fisso” da insegnante che lo aspetta automaticamente alla fine del percorso. Questa però è normale gestione corretta della comunicazione, e richiede solo un po’ di controlli per evitare abusi.

Una riserva più precisa è che lo studio umanistico deve essere serio e rigoroso – altrimenti, banalmente, non funziona e scattano molti meccanismi di induzione alla cialtroneria. Certo, nel nostro basso mondo, certi tipi di cialtroneria ottengono spesso premi: nei numerosissimi settori in cui è difficile fare verifiche oggettive, un incompetente che si sappia presentare bene vince regolarmente su una persona competente ma poco abile nella presentazione, e in alcune aree umanistiche sono piuttosto comuni figure di produttori di aria fritta, e chi prova a leggere uno dei libri prodotti da questi individui si accorge che sono spesso privi di significato, o sbagliati (Giunta stesso ha smontato, in altre sedi, alcuni esempi esilaranti di questo tipo, a cominciare dai lavori di Julia Kristeva). D’altra parte, proprio perché viviamo in questo mondo, cialtroni vistosi e privi di spessore possono anche ottenere un grande successo e nominarne uno direttore di un festival può per esempio essere un’ottima mossa per ottenere un grande riscontro comunicativo. Non credo però che l’università abbia il fine di incoraggiare questi comportamenti a somma zero, per quanto possano essere importanti per le persone che “vincono la lotteria” (il numero delle persone che possono essere famose è probabilmente limitato, il numero delle persone che possono essere competenti non lo è, o perlomeno, non allo stesso modo). Credo anzi che abbia il dovere di individuarli, criticarli e marginalizzarli, con più cattiveria di quanto oggi non fa; ma questo è un altro discorso.

Purtroppo, però, serio non è sinonimo di difficile. Una delle maledizioni dello studio umanistico è che alcune cose importanti sono molto facili da presentare e al tempo stesso difficili da applicare o verificare. Imparare il cinese o la trigonometria sono attività difficili, che richiedono pazienza e studio; imparare a comunicare bene è presumibilmente molto più importante, nel mondo del lavoro, rispetto all’imparare la trigonometria, ma non esiste un assieme di regole su cui, studiando la notte, si possa arrivare alla fine a un’illuminazione. I parametri di base si enunciano in pochi secondi (“la comunicazione professionale di regola cerca di entrare in contatto con un destinatario per raggiungere un obiettivo”), e non ci sono formule da studiare o liste di caratteri... è tutto poco formalizzato e poco formalizzabile.

Avere una formazione umanistica di buon livello non è quindi semplice. Io ho da un pezzo il sospetto che intere aree d’insegnamento “umanistico” dovrebbero essere espulse dalle università e lasciate a un generoso dilettantismo, simile a quello di chi fa collezione di francobolli o trenini; e che, parallelamente, in alcuni casi il livello degli studi sia talmente basso da richiedere la chiusura dei corsi. Però queste sono attività, diciamo, di ordinaria manutenzione del curriculum. E che, soprattutto, non richiedono affatto che gli studi umanistici vadano ripensati in una direzione tanto orientata al “posto di lavoro” quanto quella indicata da Giunta.

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