Oltre alla geopolitica da spiaggia del presente c’è quella del passato. Nel caso della vecchia Goa, è una geopolitica che si è trasformata in pietre e chiese imbiancate.
A quel che mi sembra, in Italia non è molto nota la storia della città di Goa. Collocata nell’estuario del fiume Mandovi, all’origine era la capitale di un regno islamico sulla costa occidentale dell’India. Nel 1510 venne conquistata da Alfonso de Albuquerque, poi persa, poi riconquistata; rimase poi per secoli la capitale dei territori portoghesi in India, importanti per il commercio delle spezie. In quel periodo fu riempita di palazzi e, soprattutto, di chiese imponenti, sulla scala di una città europea di discrete dimensioni.
Goa era però anche un posto devastato regolarmente dalle epidemie. A partire dal Settecento i portoghesi iniziarono quindi a spostarsi qualche chilometro più a mare, a Panjim e il processo portò all’abbandono totale nell’Ottocento. Goa rimase come un assieme di costruzioni in disfacimento, finché nel Novecento non iniziò un’opera di conservazione.
Oggi i resti della città sono in pratica scomparsi e rimangono solo gli edifici principali. Il campanile della vecchia chiesa di Sant’Agostino, crollato per metà, domina il centro da una collinetta. Sulla riva del fiume le chiese principali sono isolate all’interno di ampie spianate e giardini ben tenuti. Gruppi di turisti indiani si spostano dall’uno all’altro sotto il sole dei Tropici, e si fotografano davanti a questi resti di una civiltà remota.
Di esotismo, per loro, ce n’è. Nella basilica del Bom Jesus fanno mezzo giro attorno alla cappella in cui è esposto il corpo di San Francesco Saverio: dentro una teca di cristallo, e in cima a un monumento realizzato nel Seicento da Giovan Battista Foggini a spese del Granduca di Firenze. Ancora più gettonato sembra un presepe a grandezza naturale nel chiostro. I selfie davanti a re magi e cammelli si sprecano.
Per me, il modo migliore per apprezzare il posto è vederlo dall’altra riva del Mandovi. Per farlo, si scende al fiume dove un tempo c’erano negozi e mercati e la Rua Direita, una delle vie principali di Goa. Si passa sotto il ricostruito Arco del Viceré e si sbuca sull’ormeggio degli scassati traghetti (due) che fanno la spola gratis tra Goa e l’isola Divar, duecento metri più in là, trasportando macchine, motorini e pedoni.
All’ormeggio sull’altro lato dell’isola non c’è niente: solo un baracchino che vende acqua e patatine, e una fermata dell’autobus. Un uomo pesca in una pozza usando zampe di pollo come esca e avverte (o segnala): “Snake!” Effettivamente, nell’acqua stagnante c’è un serpentone addormentato. Però la vista ripaga. Le chiese di Goa sono nascoste da una parete di palme da cocco; spuntano solo le cime dei campanili, e la cupola della chiesa di San Gaetano.
Per cambiare ritmo, la cosa migliore è fare un salto a Panjim. A Miramar, partono le barchette che fanno un giro turistico di un’ora all’estremità dell’estuario, a mostrare rive e delfini per la modica cifra di trecento rupie. Il bigliettaio mi vede e si preoccupa: “There is loud Indian music, sir”. Ah, sì? Ma solo su questa barca o su tutte? “All.” E allora…
In effetti la partenza avviene al ritmo di musica punjabi, che non c’entra molto con l’ambiente marino. Ci si intona di più quando si passa a Pani pani sunny sunny. Il commentatore indica i vecchi forti portoghesi e racconta tutto sui film di Bollywood girati lì: attori, trama, canzoni di successo. Poi arriva il momento di eccitazione quando il battello incontra un gruppetto di delfini – belli grossi, tra l’altro. Si manovra, si aspetta la risalita. Si gira attorno a un peschereccio; i turisti sul battello fotografano il peschereccio, i pescatori a bordo fotografano i turisti… gli unici che non fanno foto sono i delfini, sembra. Per quanto, chi può dirlo?
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