Per “sistema di scrittura” oggi si intende, generalmente, un sistema per rappresentare un linguaggio umano in forma grafica. Se il sistema non è in grado di fare una cosa del genere... cioè, nella pratica, se non permette di dare forma grafica a frasi o parole, e di ricostruire poi con precisione quanto è stato scritto... non è “scrittura” vera e propria.
Detto questo, c’è una questione che mi incuriosisce da tempo: quanto può essere potente un sistema grafico che non riproduca il linguaggio? Come sanno bene i bambini e i grafici pubblicitari, senza appoggiarsi in qualche modo al linguaggio è molto difficile comunicare concetti come “mercoledì”, “correttezza” o “tutti i gatti neri”. L’unica alternativa pratica è fare riferimento a un codice condiviso, che però di regola deve essere sempre stato spiegato usando il linguaggio.
Per comprendere più a fondo le implicazioni della situazione, tuttavia, una serie affascinante di esempi è fornita dalle società americane precolombiane. Da qualche decennio si è avuta la conferma di quella che in passato era solo un’ipotesi: sì, anche nell’America precolombiana era nota la “scrittura” nel senso attuale, in quanto la scrittura maya era effettivamente in grado di codificare il parlato (riuscì a dimostrarlo, nella gelida URSS di Stalin e dei suoi successori, ma al riparo dalla peer review, Yuri Knorozov). Tuttavia, anche se il sistema maya esisteva almeno dal I secolo a. C. e rimase usato per quasi duemila anni, al momento dell’arrivo degli spagnoli le altre principali civiltà americane non avevano nulla di confrontabile.
L’interessante raccolta di contributi Writing without words: alternative literacies in Mesoamerica & the Andes (a cura di Elizabeth Hill Boone e Walter D. Mignolo, Durham e Londra, Duke University Press, 1994, ISBN 0-8223-1388-X, che ho letto tramite prestito interbibliotecario dalla SSLMIT di Trieste) è dedicata appunto a queste civiltà.
Com’è giusto, di maya nel libro si parla poco. Lo fa solo Stephen Houston, in un saggio intitolato “Literacy among the pre-columbian Maya: a comparative perspective” (pp. 27-49), in cui affronta appunto il problema di capire quanto fosse diffusa la capacità di leggere e scrivere tra i maya. Cosa difficile da valutare per qualunque società pre-moderna, inclusa per esempio l’Italia fino ai primi censimenti. “As for the Maya evidence”, dice comunque Houston, “all scholars agree that literacy must have been limited at all periods” (p. 40, e la cosa non mi sorprende, vista l’atroce complessità del sistema di scrittura); oltre è difficile andare, anche se già nel Cinquecento gli spagnoli notavano che le persone in grado di leggere e scrivere erano solo pochi membri dell’élite, e, anche se le iscrizioni spontanee non sono state studiate a fondo, gli esempi di scrittura superstiti sono al massimo 10.000 (p. 38).
Lasciati da parte i maya, la raccolta si dedica quindi alle pratiche di aztechi, mixtechi e inca. Questi ultimi, peraltro, sono a loro volta trattati in modo decisamente marginale. Si occupano di loro Joanna Rappaport con Object and alphabet: Andean Indians and documents in the colonial period (271-292) e, soprattutto, Tom Cummins, con un contributo dedicato però a Representations in the Sixteenth Century and the colonial image of the Inca (pp. 188-219): interessante, per carità, ma centrato su un problema relativamente periferico, cioè il modo in cui gli spagnoli si trovarono a non comprendere e riprodurre i sistemi di registrazione inca – mentre, al contrario, integrarono senza difficoltà i sistemi aztechi, con un’intensa produzione di documenti indigeni al servizio degli invasori. Cummins documenta bene la differenza partendo da due incisioni che ornano la Historia general di Antonio de Herrera y Tordesillas (1609-1615), in cui la pagina introduttiva della sezione dedicata al Messico riprende immagini di dèi e sovrani da manoscritti aztechi, mentre quella della sezione dedicata al Perù, in assenza di modelli indigeni, si basa solo su ritratti di stile europeo. In sintesi:
There was no Peruvian Codex Mendoza from which to derive Inca portraits even though the first Viceroy in Peru was the very same person who, as Viceroy of Mexico, commissioned several pictorial manuscripts, including possibly the Codex Mendoza (p. 191).
There was no Peruvian Codex Mendoza from which to derive Inca portraits even though the first Viceroy in Peru was the very same person who, as Viceroy of Mexico, commissioned several pictorial manuscripts, including possibly the Codex Mendoza (p. 191).
Le due situazioni sono diverse perché per gli Inca della Conquista il principale strumento di registrazione erano i quipu. Oggi non è ancora chiaro quale funzione avessero i pochi quipu superstiti, ma è molto probabile che in pratica non contenessero informazioni linguistiche, così come probabilmente non ne contenevano gli schermi di disegni tocapu sui tessuti o i vasi kero. In tutti questi casi, il sistema di segni convenzionale veniva probabilmente usato solo come supporto alla memoria.
Sulla questione torna in termini più generali uno dei curatori del volume, Walter D. Mignolo, in quello che però è uno dei contributi più deboli: Signs and their transmission: the question of the book in the New World (pp. 220-270). L’autore presenta infatti in modo molto confuso le descrizioni dei libri aztechi fornite dagli spagnoli – partendo oltratutto dall’idea che gli europei concepissero la scrittura solo in termini di libri rilegati (?!?). L’esposizione inoltre è costellata di svarioni storici e di errori linguistici, incluse digressioni assolutamente irrilevanti, e fuorvianti, sull’etimologia delle parole. Nel testo ci sono informazioni utili, beninteso, ma vengono annegate in un fiume di cavillose elaborazioni decostruzioniste, e alla fine si riesce a ricavare ben poco di utile. Così come si ricava ben poco dall’Afterword dello stesso autore.
Una piacevole sorpresa per me è invece stata l’introduzione dell’altro curatore, Elizabeth Hill Boone: Writing and recording knowledge (pp. 3-26). L’autrice fornisce infatti una risposta articolata e documentata proprio alle domande generali di cui avevo parlato all’inizio. La presa di posizione è netta anche sul piano teoric
The notion that spoken language is the only system that allows humans to convey any and all though [nozione che in effetti i manuali di linguistica continuano a presentare...] fails to consider the full range of human experience. Certainly speech may be the most efficient manner of communication many things, but it is noticeably deficient in conveying ideas of a musical, mathematical, or visual nature, for example. (…) The notational systems of mathematics and science were also developed precisely because ordinary language could not “express the full import of scientific relationships”, as Stillman Drake has explained (p. 9).
Condivido in buona parte questo discorso. Tuttavia, nel caso specifico delle “scritture non linguistiche” americane, l’osservazione generale non sembra molto pertinente nella pratica. Non pare infatti che i sistemi aztechi e mixtechi venissero usati per rappresentare pensieri difficili da descrivere a parole. Come mostrano diversi dei contributi del volume, infatti, queste scritture venivano usate soprattutto per presentare genealogie, eventi, storie e rapporti di proprietà... tutte cose perfettamente alla portata del linguaggio parlato.Come si può immaginare facilmente, per esempio, esaminando questa sezione del Codice Boturini (che riprendo dalla p. 52 del libro):
È semmai interessante vedere quanto i disegni, convenzionali, permettessero di registrare eventi in modo molto preciso (per chi conosceva il sistema) – al punto che oggi, sfogliando i “codici” aztechi o mixtechi superstiti, si possono ricostruire con sicurezza molte storie del tutto prive di parole.
È semmai interessante vedere quanto i disegni, convenzionali, permettessero di registrare eventi in modo molto preciso (per chi conosceva il sistema) – al punto che oggi, sfogliando i “codici” aztechi o mixtechi superstiti, si possono ricostruire con sicurezza molte storie del tutto prive di parole.
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