Due anni fa sono andato a Varsavia a parlare della lingua usata per i dialoghi in alcuni romanzi storici italiani. Da quel lavoro sono venute fuori anche alcune discussioni con gli autori dei romanzi medesimi, sul tema: è possibile ricostruire con precisione la lingua parlata del passato?
Intanto, da poco più di un secolo e mezzo è possibile registrare la voce umana, e questo scioglie un sacco di dubbi – anche se la qualità delle registrazioni più antiche è molto scarsa. Cosa curiosa, sembra che, a esclusione di un verso cantato in francese, la più antica registrazione della voce umana sia in lingua italiana: i tre versi iniziali del prologo dell’Aminta di Tasso letti ad alta voce (in modo non del tutto corretto) da Édouard-Léon Scott de Martinville, l’inventore del “fonoautogramma”, tra l’aprile e il maggio del 1860. Ma tutta la storia del fonoautogramma merita una lettura, sul sito FirstSounds.
Nella pratica, le registrazioni si fanno più diffuse e comprensibili solo a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, con la diffusione del fonografo di Edison. Non che per l’italiano le prime registrazioni siano peraltro facili da trovare... Ho cercato, ma non mi sembra che nessuno si sia mai posto il problema di fare una lista delle più antiche registrazioni di parlato italiano ancora oggi ascoltabili. L’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi dichiara di avere nella Sezione Voci storiche:
le voci di personaggi importanti in tutti i campi della storia del secolo appena trascorso, da quello letterario a quello politico a quello musicale: voci di poeti e scrittori quali Giacosa, incisa nel 1900, Trilussa, Marinetti, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Bassani, Caproni, Luzi, Bertolucci,...; voci di papi, a partire da quella di Leone XIII del 1903; voci di re: Vittorio Emanuele III; voci di generali e politici della prima guerra mondiale: Cadorna, Diaz, Badoglio, Orlando; voci del fascismo: Mussolini, De Vecchi, Balbo,...; voci di scienziati: Marconi, Fermi,...; di politici della repubblica: Togliatti, De Gasperi, Nenni, Saragat,...
Queste registrazioni non sono però disponibili sul web o in qualunque forma che non richieda la visita a un archivio specializzato (o perlomeno, io non sono riuscito a trovarne traccia – qualche anno fa, diversi di questi campioni erano stati presentati sul sito web dell’allora Discoteca di Stato). Parlando di linguaggio di inizio Novecento siamo inoltre già a contatto con la memoria dei viventi: non c’è bisogno di basarsi solo sulle registrazioni, si può anche chiedere a chi ha imparato a parlare in quegli anni – anche se da qui al 2015 scompariranno, purtroppo, gli ultimi esseri umani che abbiano imparato a parlare nell’Ottocento. Per gli anni successivi, infine, la quantità di registrazioni aumenta e si intreccia sempre più con le pratiche quotidiane.
Andando a ritroso nel tempo, viceversa, le cose diventano più difficili. Prima del 1860, in assenza di registrazioni e ormai scomparsi tutti i testimoni diretti, ci si può basare solo sulle fonti scritte. Né aiutano molto le (poche) descrizioni di una lingua lasciate dai contemporanei: prima dell’Ottocento, con poche eccezioni, si tratta di descrizioni pre-scientifiche che non forniscono informazioni concrete (che cosa può significare, per esempio, l’osservazione che in una data città d’Italia la pronuncia “è più dolce” rispetto a un’altra? Nulla che possa essere trasformato in precise indicazioni articolatorie o ritmiche). Si è anche parlato della possibilità che i prodotti lavorati al tornio, per esempio i vasi, possano aver “registrato” in modo ricostruibile le vibrazioni dell’aria prodotte da persone che parlavano nelle vicinanze durante la lavorazione... ma, che io sappia, nessuno è mai riuscito a ricavare nulla di utile da queste speculazioni.
Qualche aiuto può venire dalle testimonianze indirette. In fin dei conti, l’esistenza di lingue come l’indoeuropeo si può dedurre con buona approssimazione dal semplice confronto delle lingue derivate, senza che dell’indoeuropeo originale sia arrivata fino a noi la minima testimonianza diretta, scritta o d’altro genere. Tentativi di ricostruire su questa base indiretta la lingua effettivamente parlata sono stati fatti da molto tempo e continuano ancora oggi. Il più famoso di questi risale però al 1868, quando il filologo tedesco August Schleicher, basandosi sulla propria ricostruzione dell’indoeuropeo, provò a scrivere una breve favola in quella lingua. In seguito, lo stesso testo è stato usato da altri linguisti per fare lo stesso esperimento... ma, anche se probabilmente c’è stato un progresso, le differenze tra le varie versioni rendono chiaro che il margine di dubbio è notevole. Schleicher diede al brano un titolo elementare: Avis akvāsas ka (‘la pecora e i cavalli’... chi ha familiarità con il latino lo può facilmente ricondurre a un’espressione non grammaticale, ma strettamente imparentata, come "ovis equosque"), cioè in pratica tre parole accostate. Nonostante questa elementarità, il modo “giusto” per ricostruire il titolo è però variato molto negli anni. Due delle ricostruzioni più recenti sono per esempio queste, che modificano radicalmente la scelta delle vocali:
ʕʷeuis ʔkeuskʷe
h2ówis h1ék’wōskwe
Insomma, le fonti scritte sono l’unico strumento possibile – per quanto incompleto – per ricostruire credibilmente il parlato per buona parte della storia umana. Se mancano fonti scritte, si possono fare supposizioni intelligenti ma piuttosto generiche. Se per miracolo un parlante indoeuropeo nativo saltasse fuori oggi, scongelato, da un blocco di ghiaccio himalayano, è lecito sospettare che recitandogli la favoletta di Schleicher (o una delle sue rielaborazioni) non si otterrebbe una comprensione immediata.
E per le epoche successive? Qui ci si confronta con problemi diversi, visto che la scrittura fornisce un quadro molto ampio rispetto alle testimonianze indirette, ma comunque parziale. Per il caso italiano una risposta esemplare a questo genere di dubbi è stata comunque fornita l’anno scorso dalla Grammatica dell’italiano antico di Giampaolo Salvi e Lorenzo Renzi: due imponenti volumi di cui spero di parlare nel prossimo post.
2 commenti:
La storia della paleofonografia (cioè dei vasi che potrebbero restituire le voci degli antichi vasai) è più che altro quella di un topos della fiction
parascientifica, condita di almeno un esplicito pesce d'aprile e qualche contributo di dubbia classificazione. Il precursore dell'informatica Charles Babbage ha meditato cose simili negli anni trenta dell'Ottocento, ma solo come speculazione filosofica, esplicitamente impraticabile.
Il miglior sunto dello stato della questione sta in questo post di Language Log del 2006: da seguire anche i suoi link, tra cui quello alla scaletta della puntata di Mythbuster che mette la parola bufala su tutta la vicenda.
Ciao, Dario!
Grazie per i commenti e per gli ottimi link. Certo, a differenza di tante invenzioni pseudostoriche, questa almeno potrebbe funzionare... Ma naturalmente è molto facile chiacchierarne, e molto difficile fare qualche serio tentativo.
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