mercoledì 23 novembre 2011

Italiano che vale un terzo


Le ultime “riforme” universitarie dovrebbero cambiare il modo in cui l’università italiana assumerà i nuovi docenti. Non si faranno più ricercatori a tempo indeterminato (come me), e per diventare professori associati oppure ordinari sarà necessario avere prima un’abilitazione nazionale e poi vincere un concorso locale.

In questo, a livello generale, non c’è nulla di particolarmente nuovo: i fattori principali che determinano la carriera dei docenti saranno, come in passato, la quantità di soldi di cui l’università dispone e il tipo di lavoro offerto alle persone che potrebbero essere interessate a insegnare lì. Il resto sono dettagli... ma è anche vero che a volte il diavolo è nei dettagli, e che alcune caratteristiche del prossimo concorso nazionale sono come minimo sorprendenti.

Chi scriverà le regole per il concorso di abilitazione dei futuri docenti? La legge fornisce solo indicazioni generiche, da determinare con un regolamento successivo. In questi giorni circola in effetti una bozza di Decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca che presenta appunto un “Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, ai sensi dell’articolo 16, comma 3, lettere a), b) e c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240”. La bozza di decreto non sembra pubblicata ufficialmente, ma diversi organismi l’hanno discussa e presentata in tutto o in parte; io l’ho letta in una versione presentata sul sito della Rete 29 aprile.

Ora, come rileva esplicitamente il Consiglio Universitario Nazionale nel suo parere del 19 ottobre (parte prima, punto 3), per quanto riguarda la valutazione scientifica delle pubblicazioni la bozza corrente attribuisce in sostanza il potere di fissare i parametri di valutazione all’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR). La base di partenza della valutazione sarà quindi verosimilmente costituita dai parametri che l’ANVUR ha presentato come proposta di lavoro nel suo documento 1/2011, modificati con le osservazioni contenute nel documento 2/2011 (pubblicato il 25 luglio).

L’assieme dei due documenti ANVUR fornisce indicazioni in parte condivisibili, in parte sorprendenti. L’ANVUR divide la ricerca universitaria in due grandi aree, a seconda che siano disponibili o meno indicatori bibliometrici consolidati (quelli che stabiliscono il “valore” di una pubblicazione su determinate riviste, l’importanza del numero di citazioni che ha avuto un articolo, eccetera). Si può discutere sui parametri esatti, e alcune scelte dell’ANVUR sono state criticate appunto in quest’ottica, oltre che in alcune scelte di fondo, ma come minimo si può dire che criteri del genere si fondano su prassi condivise dalla comunità dei ricercatori.

In molte aree di ricerca, però, gli indicatori bibliometrici non esistono: è il caso, in sostanza, di tutta la ricerca umanistica. Gli addetti ai lavori sanno bene quali sono le sedi di pubblicazione più selettive e prestigiose, e quali no, ma non c’è una gerarchia rigida e pubblica paragonabile a quella presente, per esempio, nella biologia molecolare. Di conseguenza, o si mette in piedi un sistema di valutazione internazionale anche per questi settori – cosa decisamente fuori portata – oppure bisogna rassegnarsi... o no? L’ANVUR, davanti al problema, ha fatto una scelta sbagliata: ha proposto per tutta quest’area di usare indicatori inventati e approssimativi, sia pure sottolineandone i limiti e auspicandone l’uso nella sola “prima tornata di abilitazioni”. Vedere per credere. Nel documento 1/2011 si propone di valutare le pubblicazioni dell’area innanzitutto secondo il loro numero (punto 5, parametro 2):


il parametro è il numero di pubblicazioni (esclusi gli atti dei congressi) negli ultimi 10 anni, ponderato per tenere conto del diverso impegno nella produzione di monografie e articoli e delle differenze di diffusione tra lavori pubblicati all’estero o in Italia.

Per la ponderazione viene poi proposto questo schema:

- monografia pubblicata da editore internazionale (autore o coautore) : peso 3
- articolo pubblicato su rivista internazionale (ISI o Scopus) : peso 1,5
- curatela di volumi pubblicati da editori internazionali : peso 1,2
- monografia pubblicata da editore nazionale: peso 1
- articoli pubblicati su riviste nazionali: peso 0,5
- articoli pubblicati su riviste internazionali non ISI o Scopus: peso 0,5
- articoli o capitoli pubblicati su volumi nazionali: peso 0,5.

In sostanza, per incredibile che possa sembrare, un’agenzia di valutazione propone di misurare metà delle ricerca universitaria italiana mettendo tutte le pubblicazioni di uno stesso tipo allo stesso livello, senza badare al fatto che un libro può essere un’opera geniale e un altro una farneticazione pubblicata a spese dell’autore. Inoltre, cosa altrettanto incredibile, dice che se un lavoro è stato pubblicato da un editore italiano vale tre volte di meno rispetto a un qualunque lavoro dello stesso tipo pubblicato da un qualunque editore straniero!

Le cose peggiorano ulteriormente nel documento 2/2011 che, intervenendo al punto 3 sull’appena citato punto 5 del primo documento, propone che a essere penalizzati non siano più i lavori pubblicati da “editori nazionali”, ma quelli presentati “in italiano”, contrapposti a quelli “in lingua diversa dall’italiano”. Letteralmente: in questo schema, qualunque lavoro in italiano vale perciò stesso tre volte di meno di un qualunque lavoro equivalente pubblicato in qualunque altra lingua (inglese, ungherese, cantonese...).

Dire, come fa l’ANVUR, che questo modo di procedere ha dei “limiti” è un eufemismo non da poco. A occhio, la cancellazione totale della ponderazione produrrebbe probabilmente meno assurdità e distorsioni rispetto a una scelta del genere.

Com’è possibile che un’agenzia di valutazione proponga una scelta così bislacca? Le motivazioni esplicite addotte sono queste quattro:

(a) un volume pubblicato all’estero, in lingua diversa dalla lingua madre (italiano) comporta di norma uno sforzo maggiore per l’autore rispetto ad un volume in italiano;
(b) esso è stato sottoposto ad una selezione che inevitabilmente si è basata su una competizione più ampia e più severa, in quanto per definizione più numerosi sono i concorrenti
(c) esso raggiunge grazie alla distribuzione nei canali internazionali una platea più vasta di lettori ed utilizzatori, realizzando in questo modo un ampliamento della comunicazione scientifica (che è un valore in sé), una maggiore visibilità della ricerca italiana nel mondo, ma anche un impatto più incisivo della spesa pubblica in ricerca
(d) qualora si tratti della traduzione in lingua estera di un precedente lavoro in lingua italiana, essa testimonia del riconoscimento internazionale del lavoro dell’autore (in questo caso andrebbe conteggiato solo il lavoro originale o la traduzione, non entrambi).

Alcune di queste motivazioni rasentano la follia. Per esempio, che senso ha (punto a) valutare lo “sforzo” compiuto da un autore? La ricerca scientifica non è un compitino di scuola elementare, in cui l’insegnante può dire “d’accordo, non ce l’ha fatta, ma si è impegnato molto...”. Nella ricerca contano solo i risultati, non il fatto che arrivarci sia stato faticoso – e, ancor peggio, artificiosamente faticoso. Il punto (b) e il punto (c) si basano invece su una valutazione del pubblico che per molti settori è tutta da dimostrare. Io mi occupo di linguistica italiana: chi si interessa a questo argomento sa quasi inevitabilmente leggere l’italiano, ed è molto probabile che una pubblicazione in inglese tagli fuori, in Italia, un numero di potenziali interessati pari o superiore rispetto a quello che si guadagna all’estero. E di sicuro, dal punto di vista della produzione, gli studiosi di linguistica italiana capaci di scrivere con agio in inglese sono meno numerosi di quelli capaci di scrivere in italiano...

Va sottolineato poi che l’ANVUR parla pudicamente di “lingua diversa dall’italiano”, ma pensa in realtà al solo inglese. Che senso avrebbero i criteri di “ampiezza del pubblico” per una pubblicazione scritta, per esempio, in svedese?

Insomma: nella comunicazione scientifica fare una graduatoria a priori delle lingue ha ben poco senso. Ogni ricercatore desidera che il proprio lavoro sia conosciuto dalle persone interessate, e si regola di conseguenza, sulla base delle proprie capacità. In alcuni settori, se si vuole diffondere il proprio lavoro, bisogna scrivere in inglese. In altri, semplicemente, no. Stabilire a priori che certe lingue sono inferiori rispetto alle altre... anzi, che una lingua è inferiore rispetto alle altre... non ha alcun senso scientifico. Potrebbe essere un atto di politica della ricerca, ma è difficile immaginarsi che se per esempio la linguistica italiana si mettesse a pubblicare solo in inglese, i suoi risultati migliorerebbero o sarebbero più noti all’estero (verosimilmente, avremmo articoli in inglese scritti peggio rispetto agli equivalenti italiani, grazie al famoso “sforzo”).

Dopodomani ci sarà l’assemblea dell’Associazione per la Storia della lingua italiana, cui appartengo anch’io, e spero ci sia occasione di presentare come minimo una forte mozione contro una proposta tanto assurda.

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