Quest’estate, in Italia, sembra che molti addetti ai lavori abbiano letto la traduzione di un fortunato libretto di Martha Nussbaum: Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Bologna, il Mulino, 2011. Libretto modesto, che dice alcune cose giuste ma, essendo poco documentato e pieno di affermazioni esagerate, è adatto alle chiacchiere da giornale e a poco altro.
Io invece mi sono letto nello stesso periodo un altro libro americano, che affronta lo stesso problema e giunge in alcuni punti a conclusioni simili, ma è molto più solido, documentato e ragionevole: Our underachieving colleges. A candid look at how much students learn and why they should be learning more di Derek Bok (Princeton, Princeton University Press, nuova edizione, 2007; io l’ho letto nella versione Kindle che indica come “Page Numbers Source ISBN” 0691136181). Lo spessore dei due testi è ben diverso – e anche per questo non credo che vedremo tanto presto in italiano quello di Bok. Che non è un’opera di genio, o un libro che segna una nuova epoca, ma semplicemente una presentazione di buon senso di cose su cui di solito, più che ragionare, si sragiona.
A questo libro sono arrivato, a dire il vero, un po’ indirettamente – perché questo libro viene molto usato da Arum e Roska come base per la loro ricerca sugli esiti della formazione universitaria. Avendolo letto, devo dire che è stata una buona scelta (forse un po’ sbilanciata sulle competenze umanistiche, più che su quelle scientifiche; il che è d’altra parte un difetto di quasi tutti i testi del settore, ma pour cause). In sintesi, Bok fornisce molti dati, ma soprattutto ribadisce un’idea tradizionale americana: quella che l’università deve avere come fine comune ed essenziale il miglioramento delle competenze generali dell’individuo.
Nel libro di conseguenza si parla poco di conoscenze e capacità specifiche, anche per settori che vanno dalla medicina all’ingegneria. I capitoli centrali del lavoro sono invece dedicati a competenze molto generali. Basta vedere i titoli:
cap. 4 – Learning to communicate
cap. 5 – Learning to think
cap. 6 – Building character
cap. 7 – Preparation for citizenship
cap. 8 – Living with diversity
cap. 9 – Preparing for a global society
cap. 10 – Acquiring broader interests
Viceversa, solo un capitolo, l’undicesimo, è dedicato esplicitamente a “Preparing for a career”. Questa proporzione è sorprendente, in prospettiva italiana: da noi si dava per scontato, e per certi versi lo si dà tuttora, che tutte queste cose siano competenza dei licei (più che della scuola superiore in generale) e che l’università si rivolga solo a cittadini già maturi e formati, unicamente per insegnare una professione. Un esempio tipico di questo atteggiamento è l’opinione di Claudio Giunta di cui ho già parlato, che in sostanza consiste nel “se non hanno già avuto una buona preparazione liceale, non vengano a fare una facoltà umanistica”.
Non credo che l’atteggiamento italiano fosse valido in passato, quando all’università andava solo un’élite, e tantomeno credo che sia valido oggi, nell’epoca in cui la maggioranza degli italiani nella fascia d’età corrispondente prova ad andare all’università. Certo, il modello americano ha molti punti migliorabili... ma, anche se il confronto è difficile, mi sembra che nell’assieme i suoi risultati siano migliori di quelli italiani. Non così tanto come dicono di solito i giornali, ovviamente; ma, visto che molti di quei risultati sono ottenuti attraverso politiche che in Italia non piacciono, forse è il caso di dare un’occhiata più da vicino.
Diciamo subito che Bok è un giurista e che per vent’anni è stato “President” di Harvard. Cultura umanistica insomma, ma né lui né Arum e Roska ritengono che la cultura umanistica sia l’unica via al pensiero critico, o alla comprensione degli altri. Ritengono però che, assieme alle scienze, sia uno dei modi migliori per migliorare capacità come appunto il pensiero critico, o la comunicazione.
(A scanso di equivoci: “pensiero critico” non è il parlar male del governo, o del capitalismo, o dell’umanità, o di chi ci sta antipatico. È la capacità di comprendere e affrontare in modo intelligente le situazioni, lavorative o meno, trovando e valutando alternative, e così via. Volendo far retorica, si potrebbe dire che nel mondo del lavoro è una capacità “da dirigenti”, anche se ho idea che per fortuna quasi tutti i lavori nel settore dei servizi, a qualunque livello, sono svolti meglio quando a svolgerli c’è una persona in grado di mettersi in modo intelligente davanti ai problemi).
Le considerazioni fatte da Bok per ognuna delle capacità affrontate nei singoli capitoli seguono in sostanza uno schema comune: l’autore spiega perché la capacità descritta è un valore in sé e perché serve molto al mondo del lavoro; mostra poi che le università non stanno facendo del loro meglio per insegnarla (per una serie di motivi descritti in modo intelligente) e propone possibili soluzioni. La differenza più importante rispetto al libro di Martha Nussbaum è che ognuna di queste capacità viene discussa a fondo sulla base di molti dati e valutata criticamente, facendo osservazioni ragionevoli sulla sua importanza e sulle possibilità che l’insegnamento universitario ha di rafforzarla negli studenti.
Per dare un’idea più di dettaglio, Bok inizia nel quarto capitolo la sua rassegna di competenze indispensabili dichiarando che “Almost everyone agrees on the need to communicate effectively” (1296) e aggiungendo poco dopo che “university presidentes and their faculties have long acknowledged a responsibility to teach students to write well” (1301). Anche a livello pratico,
Employers grumble incessantly about the poor writing of the college graduates they hire, and ‘better communication skills’ regularly tops the list of improvements firms would like to see among their new employees. Entire companies have been formed to serve large corporations by improving the writing of the recent college graduates they employ (1428)
Quella in scrittura è la competenza che mi interessa di più, e mi interessano quindi molto le dinamiche che determinano risultati simili. Dato per scontato che un corso di scrittura in inglese è obbligatorio quasi ovunque fin dall’Ottocento e che “No other single course claims as large a share of the time and attention of undergraduates” (1310), Bok spiega che:
While willing to force students to take freshman composition, senior faculty have long been reluctant to teach such a course themselves. Professors in the sciences and social sciences quickly referred the task to their colleagues in the English department. Thereafter, in one college after another, the work was gradually handed down to lower and lower levels of the academic hierarchy. By the early twentieth century, senior faculty were shifting the responsibility to their younger, untenured colleagure. By the 1940s, junior faculty were passing the baton to graduate students. As freshman enrollments rose rapidly during the decades after World War II, English departments turned increasingly for their staffing needs to part-time adjunct instructors (usually would-be writers in need of income or Ph.D.s without a permanent academic job). By the 1190s, more than 95 percent of all compulsory writing classes in Ph.D.-granting English departments were taught by adjuncts or by graduate students. Only in small liberal arts colleges was it common to find such courses taught by tenured professors (1310-1318).
Dopodiché, “The problem with this solution, of course, is that the quality of instruction often suffers” (1347)...
La soluzione proposta da Bok è consequenziale e molto semplice: definire in modo chiaro gli obiettivi della didattica della scrittura, e assegnare i corsi a “full-time professionals” (1533), non a personale precario. Proposta del tutto ragionevole, condivisibile, e realisticamente capace di incidere sul problema.
Per fare un altro esempio pratico collegato alle attività di mia competenza, Bok nota quindi che gli obiettivi di “conoscenza delle altre culture” discussi nel cap. 9 sono validi ma che le richieste fatte spesso alle università in questo settore sono irrealistiche – e dedica molto spazio, non sorprendentemente, a una diplomatica stroncatura (3507-3535) delle richieste folli fatte da Martha Nussbaum (appunto...) in un suo libro del 1997, Cultivating humanity. A livello pratico, a parere di Bok anche la conoscenza delle lingue straniere è un obiettivo valido, ma il tempo a disposizione delle università per insegnarle è troppo ridotto per permettere di imparare una lingua a un minimo livello di utilità, e quindi sarebbe meglio non farne di nulla... o meglio, incoraggiare a studiare le lingue straniere, senza renderle obbligatorie (3763).
A lettura finita, l’impressione: su alcuni punti delle tesi di Bok si può avere da ridire, ma questo libro è la sintesi più documentata, argomentata e ragionata che abbia visto fino a oggi sugli obiettivi della didattica universitaria. Se esiste una sintesi migliore, sarei proprio curioso di sapere qual è.
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