The last lingua franca: English until the return of Babel di
Nicholas Ostler (Allen Lane, London, 2010, ISBN 978-1-846-14215-4,
pp. xx + 330)
è stato una delle letture più interessanti degli ultimi mesi. In
primo luogo perché è un testo che si colloca in uno spazio poco
frequentato: scritto per un pubblico generale, ma fondato su
competenze solide e capace di dire cose che nelle pubblicazioni per
addetti ai lavori, semplicemente, non sono mai state dette.
Cose
importanti, anche. Ostler parte dallo stato attuale dell’inglese
come lingua della comunicazione internazionale e si chiede se questo
stato sarà mantenuto in futuro. Secondo lui, oggi è “dominant,
indeed commonsense” (p. xvii) l’idea che lo sarà – cosa che
contrasta un po’ con la mia percezione: mi pare che moltissima gente pensi che l’inglese sarà presto sostituito dal cinese.
Comunque, Ostler ritiene che il ruolo dell’inglese come lingua di
comunicazione internazionale non sia affatto garantito, e
argomenta la sua tesi in modo molto convincente, partendo da alcune
constatazioni di buon senso.
Intanto,
una lingua sopravvive a lungo se è lingua madre per qualche
comunità; da questo punto di vista il futuro dell’inglese in molte
parti del mondo sembra assicurato. Tuttavia, l’inglese è oggi
conosciuto soprattutto da persone che non l’hanno assimilato come
lingua madre. Anzi, oggi lo parlano (secondo i dati di Ethnologue,
rielaborati dall’autore in una tabella interessante a p. 227) 1.143
milioni di persone, di cui “solo” 331 lo usano come lingua madre,
mentre il 71% del totale è dato da persone che sono in grado di
parlarlo come lingua franca – dato da confrontare con quello del
cinese mandarino, 1.051 milioni di parlanti, che però per l’83%
sono di madrelingua (e quasi tutto il 17% residuo è formato da
persone che vivono in Cina). L’inglese ha quindi un peso
eccezionale come lingua franca, anche se due lingue franche di uso
geograficamente più circoscritto, lo swahili in Africa e il malese
in Asia sudorientale, lo superano come percentuali di
non-madrelingua... 98% e 73% rispettivamente.
Il
secondo punto di partenza di Ostler è la nozione di “lingua
franca”. Nella linguistica contemporanea la si usa tutto sommato
poco, preferendole nozioni un po’ più sofisticate come, in
italiano, quelle di “lingua straniera” (LS) e “seconda lingua”
(L2). Ostler naturalmente conosce queste definizioni, ma ritiene che
ai fini della sua analisi risultino inutilmente dettagliate (p. 37).
Per speculare sull’evoluzione dei linguaggi basta sapere prendere
una categoria generale che contenga “alla language deliberately
acquired outside the home environment” (p. 35), etichettato in
buona parte del testo come “lingua-franca”, con il trattino. Si
tenga presente che in base a questa definizione l’italiano risulta,
nella già citata tabella, la lingua franca n. 11 al mondo, in quanto
dei 63 milioni di parlanti totali, non lo possiedono come lingua
materna ben 23 milioni di persone... che sono, però, in sostanza,
gli italiani che hanno come madrelingua il dialetto (al ruolo
dell’italiano come lingua franca fuori d’Italia Ostler accenna a
p. 227, e alle colonie italiane alle pp. 238-239).
Sulla base appena descritta, Ostler non ha problemi a fare questa previsione generale:
International
English is a lingua franca, and by its nature, a lingua franca is a
language of convenience. When it ceases to be convenient – however
widespread it has been – it will be dropped, without ceremony, and
with little emotion. People will not just get around to learning it,
not see the point, be glad to escape a previously compulsory subject
at school. Only those who have a more intimate relation to it, its
native speakers, may feel a sense of loss – much as French people
do today when their language is passed over, or accorded no special
respect. And those who are conscious of having made a serious
investment to learn the language – having misread the signs of
change afoot in global communication – may also feel cheated, even
disappointed, when others seem to be excused from having to know it.
But the world as a whole will shrug and go on transacting its
business in whatever language, or combination of languages, next
seems useful (p. xv).
I
confronti storici con cui Ostler rafforza la sua tesi sono ottimi e
convincenti, e forniscono un esempio da manuale di come la storia
possa illuminare il futuro. La seconda parte del volume
(“Lingua-francas past”, pp. 65-172) è in un certo senso il
nucleo del libro, e fa confronti competenti e ragionevolissimi tra
l’inglese e una galleria impressionante di altre lingue, dal
nahuatl al pali e dal latino al sanscrito.
Ostler
però individua bene il punto in cui i confronti con il passato
verosimilmente non saranno più utili. Come risulta dal titolo stesso
del libro, a suo parere infatti l’inglese sarà “l’ultima
lingua franca”: non solo la più recente, ma quella che non avrà
successori nel ruolo. Infatti i sistemi automatici di traduzione
diventeranno presto – in termini storici – tanto sofisticati da
cancellare il bisogno di una vera “lingua franca”. Per intendersi
con stranieri, noi o i nostri discendenti useremo d’abitudine
sistemi automatici. I quali magari per lungo tempo non saranno in
grado di fornire traduzioni perfette, ma presto forniranno traduzioni
abbastanza buone da rendere l’apprendimento di una lingua per scopi
pratici un cattivo impiego del tempo. O, come dice Ostler,
Ultimately,
and perhaps before too long – say by the middle of the twenty-first
century – everyone will be able to express an opinion in his or her
own language, whether in speech or in writing, and the world will
understand (p. 261).
Ostler
conosce bene, naturalmente, la lunga serie di stime troppo
ottimistiche su questo traguardo. Però, con i distinguo appena
fatti, credo anch’io che la sua stima sia ragionevole, e che Google
Translate faccia già intravedere un futuro non vicinissimo, ma
ragionevolmente sicuro. Peccato per il cinese...
Nota. Ho comprato questo libro una volta tanto su carta, invece
che su Kindle, perché sospettavo che contenesse esempi in alfabeti
diversi dal latino, o in cinese, e diffidavo della resa elettronica. Sui
contenuti non mi sbagliavo... ma il processo editoriale si è rivelato imperfetto anche su carta. L’edizione che ho io riporta caratteri
cinesi senza problemi ma esibisce numerosi problemi con gli alfabeti
non latini – cosa strana, visto l’argomento specialistico. Per
esempio, frasi e parole in arabo vengono riportate in una specie di
ingrandimento a bassa qualità alle pagine 63, 83, 93, 94, 104, 106,
178 e 244, mentre ci sono due esempi isolati in cui è stato usato un
font corretto a p. 85. A p. 157 si trovano testi in alfabeti dello
Sri Lanka, della Cambogia e del Myanmar, correttamente riprodotti, ma
a p. 163 compaiono estratti in ebraico e aramaico ripresi da un file
immagine molto sgranato. Perfino i simboli dell’alfabeto fonetico,
ripresi da un font molto schematico, vengono inseriti in modo molto
stridente all’interno di parole in corsivo (per esempio pp. 78-79 e
pp. 130-131). Né è l’unico difetto: una mappa a p. 189 è
malamente ripresa da un libro e risulta quasi illeggibile, mentre
alle pp. 22, 27 e 207 compaiono grafici realizzati probabilmente con
gli strumenti di default di Office, fatti con tanta imperizia da
usare simboli in sfumature di grigio quasi indistinguibili gli uni
dagli altri.
Nessun commento:
Posta un commento