Bon. Con un po’ di esperienza, direi che, quando le riforme universitarie vengono trattate nello spazio di un articolo di giornale, l’autore ne esce sempre male. Le descrizioni sensate richiedono misura di libro: condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per trattare in modo convincente un organismo complesso come l’università nel suo assieme, che più di ogni altro pezzo della società contemporanea deve rispondere a spinte diverse (didattica, ricerca, formazione professionale...). Per gli Stati Uniti, una sintesi bilanciata e ragionevole è secondo me quella recente di Derek Bok, di cui ho già parlato. Per l’Italia, viceversa, non saprei indicare nulla di recente e condivisibile. Il che è un problema.
In mancanza di meglio, nel periodo delle feste ho quindi letto un classico: gli Scritti sull’università e sulla scuola di Giorgio Pasquali, nell’edizione curata nel 1978 da Marino Raicich (Firenze, Sansoni; XLVIII + 442 pagine). Il volume, come si capisce dal titolo, raccoglie diverse opere di Pasquali, tra cui articoli sparsi e i contenuti interi della silloge Università e scuola, pubblicata in origine nel 1950 (mancano invece gli articoli pubblicati nella più celebre silloge Pagine stravaganti). Il grosso del volume (i due terzi...) è però formato dalla riproposizione integrale del libro L’università di domani, pubblicato nel 1923 e mai riproposto altrove. Pasquali lo pubblicò assieme a Piero Calamandrei, ma il libro è sostanzialmente del primo autore, che su 300 pagine di testo ne scrisse 190 di “Parte generale” e una trentina dedicate alla Facoltà di Lettere. Calamandrei scrisse invece settanta pagine dedicate alla Facoltà di Giurisprudenza, e un’appendice sulla nomina dei professori.
Trattata l’area umanistica, gli autori dell’Università di domani auspicavano che i loro sforzi venissero integrati da quelli di docenti di altre facoltà, ognuno dei quali avrebbe dovuto descrivere la propria particolare situazione. I contributi supplementari però non arrivarono mai: il 1923 non era momento propizio. Non solo per le convulsioni politiche e l’instaurazione del regime fascista ma, più nello specifico, perché nel giro di mesi venne approvata la riforma Gentile dell’università. Che da un lato era politicamente blindata, ma dall’altro veniva incontro, di fatto, a molte delle esigenze di Pasquali e Calamandrei (i quali entrambi, è bene ricordarlo, pur aderendo al Manifesto degli intellettuali antifascisti, alla fine giurarono fedeltà al regime).
Leggere oggi il libro così come lo lasciarono gli autori nel 1923 dà quindi da pensare a diversi livelli. Io ne distinguerei due: quello di straniamento, in quanto la lettura mette di fronte in modo traumatico ad alcune cose che sono state per fortuna superate, e ad altre che sono rimaste sorprendentemente uguali; e dall’altro quello di discussione degli obiettivi – che, cosa strana (ma non troppo), sono ancora oggi in buona parte condivisibili.
1. Ciò che è stato superato e ciò che è rimasto uguale
Novant’anni possono essere anche pochi, nella società. Nel caso di questo libro sono molti, perché in mezzo c’è stato quel processo di liberazione culturale che dagli anni Cinquanta alla fine dei Settanta, passando dal Sessantotto, ha dato un bel colpo ad alcuni indifendibili punti di riferimento della civiltà occidentale: razzismo e sessismo in primo luogo. Così, colpisce oggi (e colpiva Raicich già nel 1978) il modo in cui Pasquali parla delle donne... dando per scontata la loro assoluta inferiorità. Giusto per dare un campione di un concetto ripetuto diverse volte nel libro, e mai in modo ironico:
Certo, già la compagnia che tra loro si fanno giovani dati a studî diversi, impedisce che la specializzazione scolastica soffochi l’umanità in essi, o, per meglio dire, negli studenti maschi: le signorine si esauriscono completamente, e completamente si esauriranno per tutta l’eternità, nell’andare a scuola, prendere appunti, ricopiarli, mandarli a memoria; esse, a parlar propriamente, hanno solo anima vegetativa e affettiva, mancano di anima intellettuale (p. 183).
Di razze umane per fortuna, se ho ben visto, non se ne parla (a parte un ambiguo riferimento alla “comunità israelitica d’una grande città” a p. 171, e una nota sulla Cina che richiamerò più oltre). Ma non è difficile immaginare quali idee potesse avere Pasquali, in coerenza con il clima dell’epoca... E questo nonostante la polemica contro il nazionalismo negli studi, che si trasformava d’altra parte in Pasquali in regolare difesa della Germania e addirittura in celebrazione lirica (nel 1951!) del popolo tedesco come il “più alto” tra gli europei (p. 439, in un articolo che include, nella veste pubblicata qui, anche un polemico commento d’epoca di Enzo Enriques Agnoletti proprio a questo slancio di entusiasmo).
Se il libro sembra quindi per certi versi venire da un altro pianeta, per altri sembra scritto ieri. Ritoccando qualche frase e qualche giro di parole qua e là, molti dei discorsi di Pasquali sull’università potrebbero essere stati scritti ieri, a commento di qualche “riforma” o proposta di riforma recente. Tra gli argomenti toccati ci sono gli orari dei docenti, la didattica seminariale, il problema del reclutamento, il ruolo dei “precari” (allora istituzionalizzato con la “libera docenza”), il valore del titolo di studio, la concorrenza tra le sedi... Tutte cose su cui si torna e si ritorna a intervalli regolari, in quanto prodotto dell’incontro di spinte di sistema, tradizioni, abitudini e volontà di compromesso.
2. Gli obiettivi
Sfrondato dagli aspetti più superficiali, comunque, il discorso di Pasquali è in buona parte condivisibile. Il suo modello è quello tedesco e humboldtiano: l’università è una comunità di persone che fanno didattica e ricerca, e didattica attraverso la ricerca. Lontanissimo quindi dal modello inglese (l’università è il posto in cui si fa vita sociale insieme...) e da quello ibrido americano che si stava consolidando negli stessi anni.
In totale coerenza con il modello, la didattica migliore è quindi per Pasquali quella organizzata per seminari, e non per lezioni. E l’unica didattica utile è quella in cui lo studente impara qualcosa che va a formare la persona. Tutto ragionevolissimo, ancora oggi, e molto familiare, in un periodo in cui sembra che la formazione universitaria venga vista come pura e semplice somma di “crediti”. Resta ovviamente il problema di come conciliare queste spinte con alcune caratteristiche dell’università di massa – ma a Pasquali, morto nel 1952, questo problema era destinato a rimanere del tutto estraneo.
L’autore porta poi il discorso avanti proponendo ciò che all’epoca era un passo indietro: uno dei punti chiave del suo progetto era infatti l’abolizione degli “esami speciali” che si erano affermati nel periodo, cioè in pratica degli attuali esami di fine corso. Nella sua ottica lo sbocco naturale della preparazione universitaria è dato da una parte dalla laurea come titolo scientifico, e dall’altra da un esame di Stato per tutti i titoli che abbiano valore professionale. Lì, e quasi solo lì, si valuta ciò che si deve valutare. Del resto, la frequenza ai seminari assicurerebbe il fatto che gli studenti non vadano allo sbaraglio a queste prove finali.
Le finalità dell’esame di Stato vengono descritte quindi in questo modo: “un esame complessivo, ordinato in modo da fornire allo Stato sufficiente guarentigia che il candidato possieda non solo le cognizioni, ma anche le abilità indispensabili all’esercizio professionale” (p. 25). E il modo in cui Pasquali disambigua le finalità del sistema è ancora oggi in buona parte condivisibile:
Della scienza si dà saggio in un modo solo: lavorando scientificamente e pubblicando i proprî lavori, rendendo cioè pubblicamente conto dei metodi seguiti e offrendo i risultati alla verifica dei competenti. Ma la società non ha nessun interesse a misurare la scienza di un tale, perché questa non ha valore sociale diretto e immediato in quanto scienza, ma soltanto nelle sue applicazioni. Un interesse sociale a verificare la capacità di alcuno sorge appena essa è rivolta a fine professionale; e in questo caso l’organo della collettività non può essere se non lo Stato. Poiché tutti hanno interesse a sapere se un tale ha le nozioni e abilità indispensabili per fare quel che professa di voler fare, il medico, l’avvocato, l’ingegnere, l’insegnante di lettere o di scienze naturali, o se è invece uno sfrontato ciarlatano, è doveroso che lo Stato compia esso la verifica, per mezzo di un esame opportunamente ordinato a tal fine (pp. 25-26).
In retrospettiva, la cosa più interessante da dire novant’anni dopo è molto semplice: il modello di Pasquali può essere riproposto ancora oggi perché, semplicemente, è così che funzionano gli esseri umani e la conoscenza. Rimane il dubbio di quale ruolo dare ad alcuni tipi di competenze e abilità, e rimangono fuori diverse questioni importanti che riguardano tutte le università moderne. Tuttavia, forse non si sbaglia se si dice che oggi la politica universitaria si è clamorosamente dimenticata di molte considerazioni di banale buon senso.
3. La scrittura
Per me è poi interessante notare che nell’università sognata da Pasquali grande spazio avrebbe dovuto essere assegnato alla scrittura, sia durante il corso degli studi sia durante le due verifiche finali (laurea ed esame di Stato). Su questo poi anche Calamandrei concorda, a p. 234 per quanto riguarda gli esami durante il corso e alle pp. 277-78 per gli esami di Stato.
Per quanto riguarda più specificamente il corso degli studi, Pasquali parla di scrittura soprattutto in un articolo del 1920 e incluso in questa raccolt, Contro gli esami nella Facoltà di Lettere. Qui l’autore entra in dettaglio sul discorso dell’abolizione degli “esami speciali” e ritiene che negli esami complessivi, da dare come dimostrazione della conoscenza di materie molto ampie, le “prove scritte” dovrebbero avere “posto ancor più importante che quelle orali”. Queste prove dovrebbero anche includere “un breve lavoro d’indole scientifica, da farsi a casa dentro termini di tempo ragionevoli, magari prorogabili, sur un tema assegnato dal professore d’accordo con il candidato” (p. 388). Questo assetto, tra l’altro corrisponde al sistema ancora in uso nella Scuola Normale di Pisa (dove, per esempio, per la classe di Lettere sono obbligatori i “colloqui” di passaggio d’anno, con relazioni appunto su un tema concordato), di cui Pasquali fu professore incaricato presso il Seminario di Filologia classica a partire dal 1930, e dove mi sembra che la pratica abbia ancora oggi la sua importanza.
Nell’Università di domani Pasquali invece insiste sulla scrittura soprattutto parlando di esami di Stato, e la sua posizione in merito è decisa: “solo la prova scritta, almeno in legge e in lettere, può assicurarci quali risultati [il candidato] possa conseguire da sé, ove abbia agio di riflettere e disponga degli strumenti di lavoro indispensabili” (p. 32). Pasquali ritiene inoltre che “il miglior modo” per svolgere questa prova “sarebbe di assegnare a ciascun candidato un diverso tema di lavoro da svolgersi dentro un tempo determinato, poniamo un mese, a casa sua, con l’aiuto dei libri proprî e delle biblioteche pubbliche” (sempre p. 32). Di fronte all’ovvio rischio che in una prova del genere i candidati presentino lavori in realtà preparati da altri, l’autore ricorda innanzitutto che questo era un problema già endemico con le lauree dell’epoca; ritiene poi che il problema possa essere ridotto da un lato da una discussione consistente in “una serie di domande dirette a mettere in luce quanto cosciente delle proprie argomentazioni e conclusioni sia l’esaminando”, e dall’altro da prove scritte integrative “da compiersi in poche ore in una sala sotto sorveglianza rigorosa” (p. 33). In questo, propone anche di prendere ispirazione per alcuni punti dal sistema per la selezione dei mandarini cinesi, e in particolare dall’uso di cellette dedicate per esami (p. 33, con toni di ironica superiorità – e del resto, Pasquali parla di “Celeste Impero” come se ai suoi tempi la Cina non fosse divenuta già da anni una repubblica; possibile che, semplicemente, non lo sapesse?).
Infine, in coerenza con questa impostazione, Pasquali difende l’elaborato di laurea (pp. 46-47). Allora come oggi, ovviamente, l’elaborato di laurea è visto come fumo negli occhi da parte di chi vuol togliere all’università il suo carattere humboldtiano e trasformarla in scuola superiore. Vale la pena trascrivere qui il discorso intero di Pasquali:
Il più noto nemico [non riesco a capire a chi si riferisse] dell’indirizzo scientifico nell’insegnamento superiore apre la sua crociata contro l’Università scientifica, proponendo di abolire la laurea. Questa sembrerà ragione sufficiente per mantenerla a chi, come me, nella missione scientifica dell’Università e nella scientificità dell’insegnamento superiore crede fermamente. E infatti, finché gli esami speciali non saranno aboliti, la laurea sarà necessaria. Troppo evidentemente assurdo è che uno sia abilitato a una professione liberale, solo perché ha saputo ripetere con ordine approssimativo e chiarezza sufficiente dieci, quindici, venti corsi di lezioni. La tesi offre allo studente di materie non sperimentali l’unica occasione di far qualcosa di meglio che ascoltare in silenzio e con attenzione, appuntare, mandare a memoria e... rovesciare, come dicono i Siciliani quando vogliono parlare decente (pp. 46-47).
Giusto per smorzare gli entusiasmi, Pasquali a questo punto giustifica il suo amore per la laurea sulla base dell’esperienza: “le studentesse di lettere” si rivelano “inferiori agli uomini” nella laurea, e non negli esami... Ma fatta la tara al sessismo, Pasquali ha qualcosa di più interessante da dire su un argomento che ancora oggi torna fuori:
Mi siano risparmiati i predicozzi sull’immoralità di una istituzione che incita menti non ancora interamente formate a una produzione immatura. Quando una mente sarà formata completamente? E quali sono, di grazia, i limiti tra attività ricettiva e produzione? Anzi, è possibile, è concepibile un apprendere puramente ricettivo? (p. 47).
Giustissimo. Anche se negli anni Cinquanta, tornando sull’argomento in un articolo qui incluso, Pasquali dichiara “che i più degli studenti, anche ragazzi studiosi e capaci, a ventidue, ventitré, venticinqu’anni non sono in grado di organizzare un lavoro di lena siffatto che metta conto pubblicarlo, che è la guarentigia più sicura che esso è veramente scientifico” (p. 326), la sostanza non cambia. Secondo un discorso riproposto anche a p. 421, il punto chiave è che la laurea come lavoro scientifico pubblicabile è possibile solo se lo studente si è fatto le ossa più a monte, con lavori preliminari.
In conclusione: Pasquali fornisce una testimonianza d’annata sul nesso stretto tra scrittura, ricerca scientifica e formazione. A novant’anni di distanza, non mi sembra che su questo punto ci siano state novità sostanziali – semmai, battaglie che continuano a ripetersi.
2 commenti:
Indubbiamente condivisibili le osservazioni sull´importanza della tesi. Ciò detto, forse si potrebbe eliminarla se venisse introdotta la stesura di testi anche durante l´intero percorso di laurea, sul modello dei "papers" nel mondo anglosassone, sempre a proposito di quel che dice Pasquali quando afferma che lo studente si deve fare "le ossa più a monte, con lavori preliminari. E´chiaro che l´università italiana ha bisogno di riforme anche radicali, per svecchiarla ed aggiornarla a modelli di preparazione più attenti alle esigenze lavorative e e formative dei nostri giorni.
Ciao, Mario! In effetti, Pasquali proponeva proprio un sistema simile... "Una volta introdotto l'esame di Stato, una volta sancito l'obbligo di esercitazioni pratiche e di lavori scritti, lo studente, nonché aver l'occasione, è costretto a ricercare per conto proprio, a pensare di testa propria. E delle dissertazioni di laurea si potrà anche, forse, fare a meno" (p. 49). L'importante per lui era che venisse in qualche modo dimostrata una capacità di ricerca e pensiero critico indipendente, e su questo è difficile dargli torto.
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