Venendo da un’Italia che ancora si preoccupa della diffusione dell’inglese, è strano ritrovarsi a Hong Kong, in cui l’idea è che l’inglese, perlomeno sul posto, sia minacciato. Che cioè la Cina voglia, sul lungo periodo, ridurne il peso nel territorio di Hong Kong.
Ora, la presenza della Cina a Hong Kong è discreta ma ben avvertibile, e sui giornali si parla molto di “sinificazione” strisciante della ex colonia. Il che fa il paio con un’altra idea molto diffusa tra gli abitanti: che Hong Kong abbia iniziato un inevitabile periodo di decadenza, e si stia avviando a diventare solo una specie di parco di divertimenti per i ricchi (e non solo) della “mainland”. Del resto, la prima cosa che ti dicono di Hong Kong è sempre: “ah, è una piccola città, qui ci conosciamo tutti…” Gli abitanti sono sette milioni e mezzo, quanto Roma e Napoli messe assieme, ma venendo da Pechino si capisce che in questa descrizione c’è più verità di quel che si potrebbe pensare in astratto.
Ora, la presenza della Cina a Hong Kong è discreta ma ben avvertibile, e sui giornali si parla molto di “sinificazione” strisciante della ex colonia. Il che fa il paio con un’altra idea molto diffusa tra gli abitanti: che Hong Kong abbia iniziato un inevitabile periodo di decadenza, e si stia avviando a diventare solo una specie di parco di divertimenti per i ricchi (e non solo) della “mainland”. Del resto, la prima cosa che ti dicono di Hong Kong è sempre: “ah, è una piccola città, qui ci conosciamo tutti…” Gli abitanti sono sette milioni e mezzo, quanto Roma e Napoli messe assieme, ma venendo da Pechino si capisce che in questa descrizione c’è più verità di quel che si potrebbe pensare in astratto.
Alla PolyU, qualche studente un po’ più anziano degli altri mi mostra manifesti scritti esclusivamente in cinese: “Ecco,” mi dice, “questi qualche anno fa non si vedevano… le cose stanno cambiando.” Secondo me gli esempi sono pochi, in un mare di comunicazione ufficiale saldamente bilingue, ma mi fido del suo giudizio.
D’altra parte, è vero che il ruolo dell’inglese qui è strutturalmente in pericolo. Finora ho evitato di informarmi sulla situazione linguistica locale, e l’impressione indipendente che mi sono fatto finora (forse destinata a essere smentita dai dati statistici, ma non credo) è che l’inglese non sia lingua materna quasi per nessuno. Per molti, anche a Hong Kong, non è nemmeno una lingua nota: qualche parola la sanno tutti, ma mi capita di frequente di parlare con persone che hanno un inglese tanto limitato che non riusciamo a intenderci nemmeno su informazioni di base… di solito la soluzione, in questi casi, consiste nel chiamare in fretta qualcuno più bravo. Del resto imparare l’inglese non è facile, se si ha come madrelingua il cantonese!
L’inglese, insomma, è una lingua per lo scambio e per il lavoro, e in moltissimi la conoscono fin dai primi anni di scuola, ma ha tutte le caratteristiche di una lingua franca. E, come tale, potrebbe sparire quasi da un giorno all’altro dal repertorio delle giovani generazioni. Basterebbe cambiare i programmi scolastici, penso, per far calare enormemente il livello di conoscenza dell’inglese in quella che si vanta di essere “Asia’s international city”.
Non sarebbe nemmeno il primo caso recente di questo genere. Durante la decolonizzazione, in Africa, molte ex colonie britanniche hanno cancellato da un giorno all’altro lo studio dell’inglese dai programmi scolastici. Risultato: di regola, una popolazione che non è diventata particolarmente compatta dal punto di vista dell’unità nazionale, ma che è stata tagliata fuori dai contatti con il resto del mondo (qualche dettaglio su questa storia si ritrova in uno dei contributi di The making of literate societies, a cura di David R. Olson e Nancy Torrance).
Non penso che Hong Kong sia avviata su questa strada: in fin dei conti, in Cina il governo cinese si impegna molto, con scarsi risultati, per la diffusione dell’inglese. Ma già il fatto che molti abbiano questa preoccupazione è indicativo.
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