La mia visita a Yogyakarta e dintorni, a ottobre, è stata decisamente interessante. Buona parte del tempo l’ho dedicata a vedere i classici siti medievali, Prambanan per l’induismo e Borobudur per il buddismo. Diverse sorprese interessanti le ho però avute anche da Yogyakarta stessa, che è stata fondata nel Settecento e, come ho scoperto sul posto, è ancora governata dal suo sultano, in qualità di governatore della regione amministrativa speciale di Yogyakarta. La carica, a quel che capisco, viene assunta a titolo ereditario in base alla costituzione indonesiana (anche se per l’attuale sultano, Hamengkubuwono X, è stata confermata nel 1998 da un voto popolare), ed è tutt’altro che un puro titolo onorifico.
Una delle conseguenze di questo stato di cose è il fatto che la residenza del sultano, il kraton di Yogyakarta, è al tempo stesso un museo e un luogo in piena attività. Il sultano mantiene un ampio seguito, e il kraton è quindi pieno di servitori (spesso piuttosto anziani) in tenuta tradizionale, completa di sarong e kriss.
Una delle conseguenze di questo stato di cose è il fatto che la residenza del sultano, il kraton di Yogyakarta, è al tempo stesso un museo e un luogo in piena attività. Il sultano mantiene un ampio seguito, e il kraton è quindi pieno di servitori (spesso piuttosto anziani) in tenuta tradizionale, completa di sarong e kriss.
In effetti, agli occhi del turista i servitori sembrano più che altro impegnati a passare il tempo bevendo tè, trastullandosi con il telefonino e girellando scalzi nel palazzo:
In questa sede tradizionale pullulano anche le iscrizioni in alfabeto giavanese, che ho notato lì per la prima volta. Come molta della cultura giavanese, anche questo alfabeto è di importazione indiana: discende quindi dalla scrittura braminica, da cui eredita anche la natura di abugida, ma è lontanissimo dall’attuale devanagari e a me è risultato del tutto indecifrabile (cosa non sorprendente).
La guida che mi accompagnava mi ha spiegato che l’alfabeto giavanese viene ancora insegnato in tutte le scuole, in buona parte di Giava, ma che in pratica non lo usa nessuno. Solo nei villaggi più sperduti, dice, è possibile trovare ancora per esempio insegne o scritte spontanee sui muri in giavanese. Di sicuro, nei miei campioni di graffiti di Yogyakarta non se ne vede traccia, e al di fuori delle scritte ufficiali ne ho visto l’uso solo nelle insegne di negozi per turisti, come in questo caso, visto lungo Jalan Malioboro:
Viceversa, l’alfabeto giavanese è ben evidente nel kraton del sultano e nei cartelli stradali dei dintorni. Il suo mantenimento è evidentemente collegato a una scelta politica e di immagine:
E in effetti, girellando per l’Asia, noto che molto spesso, più che la diffusione dell’inglese o di qualunque altra lingua, è vistosa la diffusione dell’alfabeto latino. Le persone che lo sanno decifrare in qualche modo, magari solo in rapporto alla pronuncia delle lingue locali, sono senz’altro infinitamente più numerose di quelle che sanno spiccicare anche solo tre parole di inglese. Questa millenaria serie di caratteri (assai più antichi dell’alfabeto giavanese, tra parentesi) si sta insomma insinuando dappertutto, e sarebbe senz’altro interessante un lavoro che documenti ciò che sembra un continuo processo di espansione ai danni degli altri sistemi – con la sola eccezione di quello cinese, direi.
Nota tecnica. L’alfabeto giavanese è (ovviamente) supportato da Unicode. Tuttavia, penso che ben poche installazioni standard tra i moderni sistemi operativi includano un font per la visualizzazione dei caratteri. Di sicuro, la mia non ce l’aveva, e per vedere caratteri giavanesi sul mio computer ho installato il font Tuladha Jejeg, che mi sembra funzioni perfettamente, anche se il corpo dei caratteri che ne risultano è molto grande.
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