mercoledì 7 settembre 2011

Luigi Einaudi e la superstizione degli orari lunghi

Dal 2009, la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa sottopone i nuovi iscritti (quasi mille all’anno) a un test d’ingresso. Al momento i test sono stati ripetuti cinque volte: tre a settembre, nel 2009, nel 2010 e nel 2011, e due a febbraio, nel 2010 e nel 2011, per chi non ha potuto partecipare al test di settembre – che si svolge quando ancora molti studenti non si sono iscritti. In tutti i casi, la prima sezione dei test è stata costituita da una sezione di “Comprensione del testo”, in cui i candidati devono leggere tre estratti da opere in prosa di ambito “umanistico” e rispondere a un totale di quindici domande a scelta multipla basate su ciò che hanno letto.


Scegliere le opere per questa prova è piuttosto impegnativo, e, all’interno della sottocommissione che si occupa di preparare i test, questo è un compito che finora è sempre stato assegnato a me. Per la prova del settembre 2011, che si è tenuta ieri, ho scelto tra gli altri un testo interessante, ma forse non troppo noto, di Luigi Einaudi: l’inizio di un articolo intitolato La superstizione degli orari lunghi che il futuro secondo presidente della Repubblica Italiana pubblicò sul Corriere della sera del 21 aprile 1913. Il testo è inserito anche nell’antologia Il buongoverno, pubblicata da Laterza, che oggi forse è la raccolta più diffusa degli scritti di Einaudi (vedo che in rete ne esiste una versione con testo leggermente diverso) – ma chi legge Einaudi, oggi? Mi sa che siamo rimasti in pochi...

A quasi cent’anni dalla sua prima pubblicazione, l’articolo ha purtroppo resistito bene al tempo. Dico “purtroppo” perché, nella sostanza, gli errori didattici e pedagogici di cui parla sono tuttora diffusi, e anche la parte che ho selezionato per i test riguarda in effetti un tema ancora oggi molto vivo: qual è l’orario ideale di lezione? La risposta di Einaudi per le scuole superiori, basata anche sulla sua esperienza personale come docente, è drastica: al massimo, "tre ore con qualche intervallo di riposo". Il resto del tempo deve essere dedicato allo studio personale.

La stima può sembrare pre-scientifica. Tuttavia, non è che la scienza su questo punto sia andata poi molto avanti. Anzi, molte decisioni didattiche recenti sembrano basate su fondamenta empiriche non più solide di quelle di Einaudi, o del tutto assenti.

Prendiamo un esempio che mi tocca da vicino: il rapporto tra ore di lezione e studio individuale nelle università italiane. Dal 2001 la didattica viene suddivisa e misurata in “crediti”, ognuno dei quali corrisponde convenzionalmente a 25 ore di studio da parte di uno studente. Un anno di università corrisponde a 60 crediti, quindi a 1500 ore di studio (pochi fanno poi il calcolo successivo: ammettendo un impegno di 8 ore al giorno, come in un normale orario lavorativo, 1500 ore significherebbero 37 settimane e mezzo, lasciando agli studenti 14,5 settimane libere all’anno, cioè tre mesi di vacanze...). Quante di queste ore di studio devono essere occupate dalle lezioni?

La risposta corretta è ovviamente: “dipende”. Per alcune materie e discipline (tra cui, direi, quelle che si occupano di insegnamento della scrittura, o di abilità simili) il rapporto può essere molto basso... poche parole del docente possono richiedere ore di studio per essere ben comprese. In altri casi, se il corso richiede la presentazione di nozioni facilmente assimilabili, può viceversa essere necessario aggiungere ben poco lavoro personale al tempo trascorso in aula. Il rapporto tra lezione e studio sembra insomma estremamente variabile, e l’unico modo sensato per determinarlo, direi, è basarsi sull’esperienza.

La burocrazia universitaria ha però un funzionamento tutto suo. Nel caso dell’Università di Pisa, per esempio, è stato arbitrariamente stabilito che a partire dall'anno accademico appena trascorso per ogni credito devono essere fatte al minimo 7 ore di lezione in aula (lasciandone quindi, presumibilmente, 18 per lo studio individuale). Lo standard precedente era 6, alcune proposte puntavano a 5... ma ovviamente, a quel che mi risulta, nessuno di questi numeri è stato verificato sul campo (e, se lo fosse, sarei molto sorpreso se si scoprisse che è il valore ottimale per tutte le materie, a cominciare dalle mie). Rispetto alla saggezza di Einaudi la pratica contemporanea non sembra abbia fatto alcun passo avanti.

Nella pratica, però, quanto studiano gli studenti? Il rapporto 7 ore di lezione / 18 ore di studio individuale corrisponde alla realtà? Non conosco dati italiani, ma il già citato Academically adrift di Arum e Roska fornisce le indicazioni di un’ampia ricerca empirica per gli studenti americani. E il risultato, forse un po’ sorprendente, è che nel campione preso in esame, a fronte di 15 ore settimanali di lezione, gli studenti studiano individualmente per solo 12 ore – numero che non aumenta di molto nemmeno nelle istituzioni “selective” e di buona fama (loc. 1975). Sospetto che nel caso italiano le medie siano piuttosto simili... ma, appunto, si tratta solo di un sospetto, in mancanza di dati più solidi.

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