Sugli scaffali della casa dei miei genitori riposano ancora, in pile ordinate, le dispense dei dischi Linguaphone con cui, mezzo secolo fa, mio padre perfezionò il tedesco e imparò l’inglese – e con cui più tardi cercò, in modo piuttosto irregolare e con scarso successo, di insegnare a me entrambe le lingue. In aggiunta alle due serie complete, però, ci sono anche tre dischi di una serie iniziata e interrotta: quella del russo. Ricordo del breve periodo in cui sembrò davvero che il russo, come oggi il cinese, fosse “la lingua del futuro”
In quel periodo, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, è ambientato il grosso di Red plenty dell’inglese Francis Spufford (Faber and Faber, London, 2010, ISBN 978-0-571-22524-8, £ 9.99, pp. xiii + 434; molto interessante la discussione su Amazon.co.uk). Avevo adocchiato il libro da un po’, ma durante le vacanze il mio migliore amico me l’ha prestato, e dopo qualche simbolica resistenza me lo sono letto di corsa. Narrativamente non è un bel romanzo, ma non importa. Spufford ricostruisce lo spirito del periodo con una capacità di sintesi eccezionale, e discute a fondo i suoi successi e i suoi insuccessi così come potevano essere visti all’epoca, in attesa del senno di poi.
La struttura del libro è stata adattata dall’autore all’esperimento. Il grosso è formato da diciotto brevi capitoli, costruiti come un romanzo tradizionale, in cui si muove un cast troppo esteso di personaggi, con cui è ben difficile empatizzare. I capitoli sono poi distribuiti in sei sezioni, ognuna delle quali è aperta da un’introduzione storica di una decina di pagine (probabilmente le parti migliori e più ispirate del libro); il tutto si conclude con settanta pagine di note e bibliografia.
La struttura del libro è stata adattata dall’autore all’esperimento. Il grosso è formato da diciotto brevi capitoli, costruiti come un romanzo tradizionale, in cui si muove un cast troppo esteso di personaggi, con cui è ben difficile empatizzare. I capitoli sono poi distribuiti in sei sezioni, ognuna delle quali è aperta da un’introduzione storica di una decina di pagine (probabilmente le parti migliori e più ispirate del libro); il tutto si conclude con settanta pagine di note e bibliografia.
Certo, si possono dire molte cose negative su questo tentativo. Le mie competenze storiche non mi consentono di valutare a fondo la credibilità della ricostruzione di Spufford, che ha viaggiato in Russia ma confessa candidamente di non sapere il russo (p. 363: niente corso Linguaphone, evidentemente...) e di aver quindi dovuto basare il suo lavoro solo su traduzioni. Questo non è un limite da poco, ma al momento sono incline a perdonare l’audacia del tentativo – anche se ci si chiede perché mai non colmare la lacuna (del resto, il terzo capitolo della quinta parte, Psychophrophylaxis, è in buona parte dedicato a presentare un parto in un ospedale sovietico del 1966 dalla prospettiva della partoriente: Spufford non ha problemi, pare, a occuparsi di cose di cui non potrà mai essere un esperto affidabile).
I punti di partenza della storia sono comunque due, e ben scelti. Uno, nel 1938, è il momento in cui Leonid Vital’evič Kantorovič mette di colpo a fuoco, su un affollato tram di Leningrado, un nuovo modo per ottimizzare la produzione industriale (con quella che diventerà poi la programmazione lineare). L’altro, vent’anni dopo, è il momento in cui Nikita Sergeevič Chruščëv arriva negli Stati Uniti, sulla scia dei successi degli Sputnik e a bordo di un Tupolev nuovo fiammante, non solo per lanciare la “coesistenza pacifica”, ma anche per rivendicare l’imminente trionfo del comunismo. Secondo Spufford, infatti, Chruščëv credeva sinceramente che nel giro di pochi anni – entro il 1980 – l’URSS avrebbe superato l’Occidente dal punto di vista economico e del benessere della popolazione. E non era l’unico a pensarlo, né di là né di qua.
Come sappiamo, però, le cose sono andate diversamente. Dopo i grandi progressi economici degli anni Cinquanta, l’URSS si è sgonfiata, mentre l’Occidente si è liberato delle forme più vistose di colonialismo, sessismo e segregazione razziale, e si è gettato in una lunga fase di crescita (per quanto strano ciò possa sembrare dalla prospettiva di un’Italia che oggi è immobile da un ventennio). In parte il problema era nei meccanismi economici, in parte anche nella mancanza di visione... Come dice a un certo punto Aleksandr Arkadevič Galič, leggendo una descrizione dell’abbondanza prevista per il 1980 (vestiti comodi e pratici per tutti, possibilità di prendere in prestito strumenti musicali dai depositi collettivi):
“That’s it? The dream of the ages, and it comes down to mashed potatoes, woolly socks and shared use of a trombone?” (p. 131).
Spufford dedica ampio spazio ai motivi per cui l’economia di piano non poteva funzionare. Non importa. Mi sono trovato a fare il tifo per gli eroi del libro, i pianificatori e gli ottimizzatori, e per l’idea di amministrare la produzione sovietica attraverso i computer del Gosplan. Nella piena consapevolezza che era un’idea che non funzionava... ma con un sospetto agghiacciante, che sospetto che Spufford in parte condivida: che l’Occidente sia riuscito a dare il meglio di sé solo finché ha avuto di fronte un’alternativa del genere, e a possibilità che altre strade si rivelassero migliori.
Bene. Adesso si chiudano gli occhi, e si immagini per un attimo che Spufford abbia deciso di fare una versione “migliorata” e “multimediale” del suo libro. Una versione che contenga, insomma, il filmato del Dibattito in cucina tra Chruščëv e Nixon, o qualche spezzone d’epoca di televisione sovietica, o un po’ di manifesti, o qualche spaccato in 3D. Il tutto per “ravvivare” un libro che altrimenti sarebbe stato fatto, purtroppo, solo di parole... Oh, beh. Se qualcuno sente la mancanza di questi elementi, può sempre andare sul sito del libro, e penso concorderà sul fatto che è il libro che dà senso al resto, e non il contrario; e che il libro sta in piedi da solo, grazie alle idee che contiene, mentre foto e filmati presi in isolamento sarebbero solo curiosità.
3 commenti:
Mirko, thank you. I certainly do share your feeling that it was one of the benefits of the existence of the USSR that it forced capitalism, in order to compete, onto a more humane path than it would otherwise have followed; and that we now see various aspects of that softening or humanising being peeled away again, without the Soviet Union to make them seem necessary. I also tend to think that history has not yet necessarily finished with the *idea* of the planned economy, even if the Soviet version of it was impossible, clumsy and tyrannical. By the way, there's an Italian translation coming, from Bollati Boringhieri.
Hi, Francis!
Thank you for your timely comment :-)
Yes, it's really difficult to resist to the impression of a "rollback". Democracies are great, but the democracies of the first half of the XXth century were... well, the least one can say is that they were very selective in the ways of democracy. It seems like we have now a baseline (minimum wages and so on) against rollbacks, but I'm not so sure we will see again many of the things that made the West strong. Looking at China will not help much in this department.
Anyway, I certainly look forward to an Italian translation of your fine work (as for future works... Project Cybersyn should be a great setting :-)).
Just a question from the linguistic point of view: do you read Italian? Or have you used a translation tool to read the post?
Thank you again for your comment!
I depend on Google Translate, I'm afraid. I can follow some Italian by analogy with French and school Latin, but not enough...
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