domenica 30 agosto 2009
Pinker, How the mind works
Pinker ha scritto un libro piuttosto eterogeneo su questo argomento. Le cinquecentosessantaquattro pagine di testo sono divise in otto capitoli:
1. Standard equipment: la mente funziona a moduli
2. Thinking machines: simboli elaborati meccanicamente
3. Revenge of the nerds: l'evoluzione e il rapporto con la mente
4. The mind's eye: la vista (e le icone del computer)
5. Good ideas: entità astratte e matematica
6. Hotheads: emozioni
7. Family values: riproduzione e violenza
8. The meaning of life: musica e arte
Sembra una costellazione di argomenti diversi... e in effetti lo è! Pinker ha trattato alcuni gruppi di funzioni mentali e qualche tratto complessivo (nei primi capitoli). La selezione è molto arbitraria. Perché per esempio trattare la vista e non l'udito? O le emozioni, ma non la memoria?
Comunque, una lettura affascinante e con diversi spunti utili. Anche se non è proprio una completa teoria del modo in cui funziona la mente.
sabato 22 agosto 2009
McDonald, River of Gods
Inoltre, anche in questo caso la storia funziona. Impossibile sapere come andrà a finire, visto che, nonostante tutto, sono ancora a meno di un terzo... Però intanto è emerso qualcosa di professionalmente interessante: la descrizione di un laboratorio di fisica teorica nel 2047. Anche se i personaggi ricevono d’abitudine messaggi proiettati direttamente negli occhi e con l’aspetto di scritte che galleggiano nell’aria, l’immagine del loro spazio di lavoro è molto più tradizionale. Quando il giovane Vishram Ray entra in uno dei laboratori che ha appena ereditato, scopre che
There are non humming machines or looping power conduits, just desks and glass partitions, paper piled unsteadily on the floor, whiteboards on the walls. The white boards are full of scrawls. They continue onto the walls. Every square centimetre of surface is crammed with symbols and letters edged at crazy angles to each other, lassoed in loops of black felt marker, harpooned by long lines and arrows in black and blue to some theorem on the other side of the board. The brawling equations spread over desks, benches, any flat surface that will take felt marker. The mathematics is as unintelligible to Vishram as Sanskrit, but the cocoon of thought and theory and vision comforts him, like being inside a prayer (pp. 164-5).
I pennarelloni servono però anche per altri tipi di messaggio, apparentemente:
As his party leaves, Vishram picks up a felt marker and quickly writes on the desktop: DNNR, 2NITE?
Sonia Yadav reads the invite upside down.
“Strictly professional,” Vishram whispers. “Tell me what’s hot and what’s not.”
OK she writes in red.
8. PICK-UP HERE.
She underlies the OK twice (p. 165).
Come andranno a finire le cose, immagino lo scoprirò nelle prossime 400 pagine...
venerdì 14 agosto 2009
Rheingold, Tools for Thought
L’aspetto più datato del libro è però la sua definizione del contenuto. Per metà si parla dell’evoluzione dei computer, e per metà dell’evoluzione delle loro interfacce (l’argomento che interessa a me): due temi non tanto distinguibili all’epoca. Da un certo punto in poi i due filoni si intrecciano, ma ovviamente il secondo entra in gioco tardi. Vale a dire, a pagina 132, capitolo 7, attraverso la figura di J. C. R. Licklider. Il quale, nella primavera del 1957, esaminando il proprio impiego del tempo decise che “most of the task (...) of any technical thinker would be performed more effectively by machines” (134). Come nota Rheingold, l’idea che il computer potesse rimpiazzare non lo scienziato, ma i suoi aiutanti, a quel tempo era già venuta in mente a Engelbart e forse a qualcun altro. Licklider si trovò però presto in una posizione che gli permetteva di concretizzare l’idea: responsabile per l’assegnazione nel settore informatico dei fondi di ricerca del Ministero della Difesa statunitense.
Per il resto, il libro traccia il profilo dei soliti noti: Engelbart, Taylor, Kay... e Ted Nelson. Già nella prospettiva del 1985 erano queste le figure chiave per l’evoluzione delle interfacce informatiche fino al modello-Alto. I protagonisti degli altri capitoli sono invece i fondatori dell’informatica, da Ada Byron a Robert Shannon, e un gruppetto di persone che aveva qualche speranza nel 1985 ma è finito a percorrere strade decisamente marginali: chi si ricorda oggi di nomi come Rodman, Laurel e Barr? O della tecnologia dei “sistemi esperti”? Rheingold perde invece l’occasione di mettere a fuoco il ruolo degli imprenditori che già nel 1985, e molto di più in seguito, hanno plasmato l’evoluzione del computer: Bill Gates viene ricordato in tre pagine, Steve Jobs in due. E la parola “Internet” non è nell’indice analitico (compare invece nell’Afterword), nonostante che già nel 1985 la rete fosse una realtà consolidata nel suo ambiente.
Di questo genere di sorprese, peraltro, era già consapevole Rheingold. Come per esempio a p. 192, quando parlando di Engelbart si dice che:
It is almost shocking to realize that in 1968 it was a novel experience to see someone use a computer to put words on a screen, and in this era of widespread word processing, it is hard to imagine today that very few people were able to see in Doug’s demonstration the vanguard of an industry.
Effettivamente... Ma questo è il motivo per cui, più che quelli che fanno predizioni sul futuro dell’informatica, negli ultimi tempi mi interessano quelli che raccontano il suo passato. Le proiezioni dei singoli profeti sono sempre destinate a essere smentite, e spesso non sono comunque gran che coinvolgenti; il ricordo dei lavori già fatti, e delle strade che non sono state percorse, viceversa, è uno splendido trampolino di lancio.
mercoledì 5 agosto 2009
Hiltzik, Dealers of Lightning
Tra i materiali più leggeri c’è anche questo Dealers of Lightning (1999). Il titolo, d’accordo, è terribile; e il libro è divulgativo. Però è comunque una storia interessante del Palo Alto Research Center della Xerox nel periodo 1969-1981. Il PARC, come molti sanno, è il luogo in cui per la prima volta molte caratteristiche fondamentali dell’interfaccia utente dei computer contemporanei sono state messe a punto e introdotte in sistemi commerciali o quasi-commerciali, a cominciare dal computer Alto (1973). Insomma, è stato il luogo in cui le intuizioni degli anni Cinquanta e Sessanta sono uscite dal laboratorio... a differenza di quanto era successo con lo SRI di Douglas Engelbart.
Tuttavia il PARC si porta dietro la fama di essere stato una serie di occasioni mancate per la Xerox. Come sintetizza Hiltzik:
Xerox had the Alto; IBM launched the Personal Computer. Xerox had the graphical user interface with mouse, icons, and overlapping windows; Apple and Microsoft launched the Macintosh and Windows. Xerox invented What-You-See-Is-What-You-Get word processing; Microsoft brazenly turned it into Microsoft Word and conquered the office market. Xerox invented the Ethernet; today the battle for market share in the networking hardware industry is between Cisco Systems and 3Com. Even the laser printer is a tainted triumph. Thanks to the five years Xerox dithered in bringing it to market, IBM got there first, introducing its own model in 1975 (pp. 389-390).
Nelle pagine finali del libro in effetti Hiltzik contestualizza questo giudizio e lo sfuma un bel po’. Tuttavia il quadro che viene fuori dalle quattrocento pagine precedenti è abbastanza sorprendente. Hiltzik è un giornalista economico e racconta le vicende del PARC dal punto di vista delle dinamiche aziendali. Il quadro che ne esce è una storia di scontri tra bande e lotte per il potere tra persone variamente incompetenti (al punto che l’università italiana sembra al confronto un paradiso di razionalità, armonia e pianificazione...). Che alcune di queste persone abbiano inventato cose oggi fondamentali sembra quasi una contraddizione. Al punto che ci si chiede – è sempre la mia domanda di base, in fin dei conti – quanto queste innovazioni fossero sviluppi logici necessari e quanto invece siano state frutto dell’inventiva individuale.
Comunque segnalo il capitolo 20, The Worm That Ate the Ethernet (pp. 289-299), perché ho scoperto qui che il famoso worm creato da John Shoch venne all’epoca immediatamente ricondotto (da Steve Weyer) al tapeworm informatico immaginato pochi anni prima da John Brunner nel suo The Shockwave Rider (in italiano, Codice 4GH). Hiltzik definisce il tapeworm di Brunner “perhaps the first computer virus of fact or fiction” (p. 295), e, anche se con diversi distinguo, in effetti anche questo è un curioso esempio di preveggenza narrativa.
sabato 1 agosto 2009
Che cosa insegnare?
Vediamo un po'. Per il Laboratorio di Italiano scritto professionale penso di fare in sostanza la versione migliorata di quello che ho fatto quest'anno. Ci sono ore in più, e penso che saranno utilissime.
Per il corso di Linguaggio del Web della specialistica, invece, vorrei affrontare un argomento quasi del tutto nuovo: il diritto d'autore e la proprietà intellettuale. Visti in buona parte dall'angolazione linguistica, ovviamente, ma non solo.
Come bibliografia penso di inserire tutti i libri di Lessig liberamente disponibili sotto licenza CC. Di sicuro, The Future of Ideas e Remix.
La messa a punto del programma sarà uno dei lavori di agosto.