Il libro, devo ammettere, un po’ mi indispone fin dal titolo italiano: le tigri non ruggiscono mica... (e, com’è ovvio, l’idea si trova solo in traduzione, il titolo originale essendo The Battle Hymn of the Tiger Mother, 2011). Tuttavia, il volume pubblicato quest’anno da Sperling & Kupfer mi è capitato in mano per caso e, siccome di recente se ne è parlato molto, in un paio di serate me lo sono letto.
Non è stato neanche uno sforzo eccessivo: il volume è composto da duecentotrentacinque pagine stampate a caratteri molto grandi. E anche il contenuto è facile da sintetizzare. L’autrice è una docente universitaria di diritto a Yale, sposata con un collega, e il libro racconta il modo in cui la coppia ha educato le due figlie. Educazione che è consistita nel mettere al bando gli svaghi inutili, imporre regole strette e far studiare la musica. Fino al punto in cui una delle due figlie non è diventata una violinista di fama prima di raggiungere i quattordici anni.
Tutto qui? Sì. La storia in sostanza si potrebbe riassumere con : “grazie a un’educazione rigorosa, la figlia di una famiglia ricca diventa una violinista prodigio”. E giustamente il lettore potrebbe commentare: embè?
Il punto è che il libro viene oggi presentato come un’opera che, dice uno strillo in copertina, “ha trasformato in incendio la scintilla del dubbio che serpeggia nelle famiglie: siamo diventati troppo accomodanti con i nostri figli?” Bella domanda, però la risposta, in Italia come negli Stati Uniti, è in buona parte dipendente dal contesto.
“Troppo accomodanti?” Per alcuni gruppi sociali la risposta è: certamente sì. Non mi sembra ci siano seri studi di settore, ma a occhio paiono molto diffuse nelle classi medie italiane le situazioni in cui i genitori fanno i compiti a casa insieme ai figli, o addirittura al posto loro (una scenetta divertente di questo tipo viene descritta anche nell’ultimo, brutto pamphlet di Paola Mastrocola). Evidentemente, c’è gente che ha troppo tempo libero tra le mani... Ma non si riduce tutto a questo.
Certo, diversi studi riferiscono che negli Stati Uniti per esempio il tempo che gli studenti dedicano a studiare si è molto ridotto, negli ultimi anni. E se esistessero studi simili in Italia, probabilmente descriverebbero una situazione non troppo diversa. Ma si tratta di essere diventati “troppo accomodanti”? Amy Chua non ha troppi dubbi e descrive una situazione in cui mettere i figli al lavoro è una scelta culturale. In pagine che immagino scritte per un pubblico di madri americane di fascia di reddito non molto elevata (in cui ogni tanto si fanno balenare quadretti di uno stile di vita ricco e prestigioso, fatto di viaggi all’estero e capricci soddisfatti), c’è l’esaltazione della cultura “asiatica” o “cinese” basata sul lavoro e la critica della cultura americana del perder tempo e “socializzare”. Benissimo. Personalmente non ho dubbi sul fatto che imparare a fare cose difficili dia più soddisfazione, alla lunga, rispetto a stare a ciondolare nel mall – o, nel caso italiano, sulle panchine della piazza. Si tratta però davvero di una contrapposizione tra etiche del lavoro diverse?
Ne dubito. C’è la cultura – ma, come secoli di marxismo per fortuna ci ricordano – a volte la cultura è sovrastruttura (questo, almeno, dovremmo averlo imparato). Se i ragazzi americani studiano meno, è perché i genitori li viziano? Oppure perché, per ampie fasce di popolazione, studiare di più è inutile, dal punto di vista pratico? Una volta lo studio era condizione necessaria e sufficiente per svolgere determinati mestieri. Ora, a parte alcune aree difficili e competitive, lo studio non è più sufficiente. Giusto per fare l’esempio che tocca più direttamente il mio settore, in Italia un laureato in lettere non ha più, quasi automaticamente, un posto da insegnante, come viceversa succedeva fino alla fine degli anni Ottanta. Certo, i bravi emergono comunque – ma appunto si tratta di eccezioni, non della migrazione di massa che si è vista dalle nostre parti fino alla fine degli anni Ottanta.
Insomma, se scompare il meccanismo premiante, molti si chiedono: ma chi me lo fa fare? La risposta giusta è, ovviamente, che l’impegno è un bene di per sé, che produce conseguenze importantissime a livello di capacità personali, e così via. Ma tutto questo è molto remoto e molto meno invitante rispetto al posto-fisso-dopo-la-laurea. Non credo quindi che l’atteggiamento descritto nel libro – con punte grottesche – possa di per sé portare molto lontano. Può andar bene come modo per ispirare i singoli (certo, chi ha bisogno di farsi ispirare allo studio da un libro del genere non parte da una posizione di vantaggio...), ma non è difficile vedere i limiti del sistema. Soprattutto quando l'obiettivo non è imparare a suonare uno strumento ma sviluppare capacità critiche, per esempio nella lettura e nella scrittura.
Più che un modello culturale generalizzabile, insomma, il libro descrive capricci individuali (quanti "posti" di violinista prodigio esistono, in fin dei conti?). Da una docente universitaria, autrice di due studi articolati, ci si aspetterebbe una riflessione un filino più profonda, anche all'interno di un libro evidentemente pensato per un pubblico di basso profilo.