Come anticipato nel post precedente, la risposta è: solo in parte. Ferraris ha notato che la maggior parte degli addetti ai lavori, e del pubblico, non ha assimilato alcune importanti scoperte sulla scrittura, fatte da personaggi come Derrida e Harris. Tuttavia, il nucleo del libro è dedicato a un’idea che è in sostanza falsa. Vediamo quindi in dettaglio questi problemi nell’argomentazione chiave, basandoci sul riassunto presentato da Ferraris stesso sotto forma di sintesi delle sue 11 “tesi fondamentali” nella sezione finale del testo (pp. 358-362; anche questa definizione tra l’altro condivide l’approssimazione espressiva di tutto il libro, e diverse “tesi” in realtà non sono “tesi”, ma definizioni). Al centro del libro si trova in effetti “la regola costitutiva degli oggetti sociali”, che secondo Ferraris può essere sintetizzata nell’equivalenza “Oggetto = Atto Iscritto” (p. 360; le maiuscole sono nel testo).
Che cosa significa questo? In sostanza, che un “oggetto sociale” deve corrispondere a un “atto iscritto”. Si può anche essere d’accordo, ma che cosa sono gli “oggetti sociali” e gli “atti iscritti”?
Atti sociali
Ferraris propone “di chiamare ‘sociale’ qualunque atto che intercorra fra almeno due persone formalmente consapevoli del fatto che questo atto ha luogo” (p. 185, corsivo suo). Naturalmente, ognuno può proporre a piacimento una propria definizione per qualunque cosa. In questa specifica definizione però colpisce un fatto: non corrisponde a molti atti che si possono definire come “sociali” (è anche difficile definire quand’è che una persona è “formalmente” consapevole di un atto, ma lasciamo questo da parte).
Non è quindi difficile proporre una lista di “atti” che a me sembrano perfettamente “sociali” (e che anche molti, penso, considererebbero tali) ma che è per vari motivi difficile far rientrare nella definizione di Ferraris. Per esempio, sfilare un portafoglio dalla tasca del cappotto di uno sconosciuto mi pare un atto sociale, ed è un furto sia che, sul momento, la vittima se ne accorga sia che non se ne accorga (e magari rimanga anche in futuro nel dubbio di aver perso il portafoglio quando si è chinata sul ponte per allacciarsi le stringhe...): se un vigile di passaggio si accorge della cosa, è legittimato a intervenire, indipendentemente dalla “consapevolezza” della vittima. Oppure, “andare alla partita” è senz’altro un atto sociale, ma “fra” quali persone avviene? E, più radicalmente, acquistare un biglietto del treno a un distributore automatico è un atto sociale, anche se coinvolge una sola persona? Secondo me, senz’altro... e troverei molte difficoltà a distinguerlo da questo punto di vista rispetto all’acquistare un biglietto da un venditore umano. Eccetera eccetera.
Prendiamo comunque per buona la definizione, e trattiamo da qui in poi come “atti sociali” solo quelli che, arbitrariamente, Ferraris considera tali.
Atti iscritti
Proseguendo nel suo ragionamento, Ferraris dice che tratto caratteristico degli atti sociali è il loro corrispondere a un “atto iscritto”: niente registrazione, niente atto. La pretesa sembra abbastanza assurda, visto che molti atti sociali si compiono attraverso azioni che non hanno nulla a che fare con la “scrittura” così come la si intende normalmente.
Se si accettano le definizioni di Ferraris, però, una parte dell’assurdità scompare. Alla base del libro si trova infatti una definizione di “iscritto” che comprende in pratica tutto ciò che lascia tracce nel mondo. Naturalmente, essendo il livello delle definizioni del libro quello che è, a volte si trovano formulazioni più restrittive di “iscritto” (per esempio, a p. 176) e a volte formulazioni più di manica larga (per esempio, alle pp. 231-232), e spesso non è chiaro a quale si faccia riferimento nei vari punti. Tuttavia, anche le definizioni più restrittive hanno un’uscita di sicurezza: tra i “supporti” per le “iscrizioni” Ferraris inserisce anche “la mente delle persone” e i “neuroni” (p. 176). In altri termini, anche un ricordo può per lui essere un’“iscrizione”.
Una definizione simile è molto più coerente di quella di “atto sociale”. Infatti, Ferraris si avvicina (senza metterla a fuoco) a una nozione potente: quella di informazione. Gli atti sociali sono sicuramente in buona parte composti da “informazione”, e l’informazione, a sua volta, ha sempre bisogno di un supporto materiale, con il quale a volte ha un rapporto tutt’altro che meccanico. Il discorso è centrale per moltissime discipline, è alla base di un fortunato libro di James Gleick di cui spero di parlare prossimamente qui, e Ferraris l’ha in parte riscoperto (senza aver inquadrato la relativa bibliografia). Non ho quindi obiezioni sul concetto in sé: ogni atto sociale deve lasciare una traccia nel mondo, perché, almeno in base a ciò che oggi sappiamo di fisica e informazione, in caso contrario non potrebbe nemmeno esistere (qualcuno può immaginare un atto sociale che non sposti nemmeno una molecola o un fotone?).
Il problema della definizione di “iscrizione” data da Ferraris sta però nella sua mancanza di potere caratterizzante. Oltre agli atti sociali, che cos’è che lascia “iscrizioni”? La risposta è: tutto. Inclusi per esempio i desideri inespressi, le emozioni e le intenzioni degli esseri umani, che verosimilmente lasciano nel cervello dei soggetti qualche traccia fisica – anche se abbiamo modi solo rudimentali per individuarle.
Più nello specifico, visto che gli esseri umani consapevoli hanno per definizione una memoria, dire che un atto sociale avviene tra due persone “consapevoli” implica di necessità che lasci qualche “iscrizione” mentale (più o meno labile, ma questo è un altro discorso). E allora? Un’“iscrizione” di questo genere si produce in qualunque atto consapevole degli esseri umani, anche in isolamento e al di fuori della società. Non si capisce quindi su quale base Ferraris possa dire che gli atti che producono oggetti sociali “sono caratterizzati dal fatto di essere iscritti su un supporto fisico qualunque, dal marmo ai neuroni, passando per la carta e andando oltre, nel mondo del web” (p. 176, corsivo mio). C’è qualunque atto consapevole che coinvolga due persone e che non rientri in questa definizione? O che non lasci un’iscrizione nel senso appena visto? In sostanza, quindi, Ferraris sta dicendo che sono “atti sociali” gli atti che hanno la caratteristica di essere... sociali, cioè di svolgersi tra almeno due persone consapevoli.
Importanza della memoria
I ragionamenti di Ferraris su questi argomenti sono condivisibili in un punto chiave: far notare che per molti atti sociali è importante, più ancora della comunicazione, la registrazione. Tuttavia, appena fatto questo passo, Ferraris lo sommerge in un mucchio di osservazioni discutibili e prive di base – per esempio, dichiarando che la “registrazione” sarebbe in media più importante della “comunicazione”. Io non ne sono altrettanto certo. Può anche darsi che sia vero, ma Ferraris come fa a saperlo? A sostegno di dichiarazioni così impegnative non ci sono dati, solo aneddoti.
Sull’importanza della registrazione mi sembra quindi che la considerazione più appropriata sia, al solito: “dipende”. In alcune circostanze è importante comunicare, in altre registrare. Aneddoto per aneddoto... io ho avuto in dono dalla natura (e forse dallo studio) una memoria molto scarsa per diversi tipi di evento. Considero questa una delle fortune maggiori che mi siano capitate, e sono lieto di non ricordare una quantità impressionante di cose.
Esagerazioni assortite
Sulla base degli argomenti appena presentati, le osservazioni di Ferraris sul rapporto tra atti sociali e iscrizioni mi sembrano in buona parte sbagliate. Va però detto che il libro seppellisce anche le osservazioni corrette sotto uno strato di esagerazioni e deduzioni prive di fondamento. La fusione tra “iscrizioni” mentali e iscrizioni nel mondo esterno porta per esempio Ferraris a marginalizzare (non a cancellare, per fortuna: qualche distinguo viene introdotto qua e là) le differenze tra i due tipi di scrittura, quando invece è proprio lì che sta buona parte dell’interesse...
Più radicalmente, in alcuni casi Ferraris parte proprio per la tangente. Per esempio, a partire da p. 285, incomincia a parlare dell’Unione Europea come di un organismo sociale che trae la propria origine “esclusivamente da documenti”... prego? Né si tratta di una svista, perché il libro va avanti per diverse pagine a parlare di questa caratteristica e a usarla per differenziare l’UE dagli stati “nati sulla base di trattati”, sostenendo che nel suo caso non ci sono state “guerre di indipendenza o di espansione”, ma tutto si è svolto su base “puramente documentaria”.
Non mi è affatto chiaro in che senso, per esempio, ci sia differenza da questo punto di vista tra la formazione dell’UE e quella del Regno unito di Inghilterra e Scozia, o quella della Yugoslavia, eccetera eccetera. Il continente non è stato affatto “unificato dai documenti” (p. 286): è stato unificato, sia pure solo a certi livelli, dal desiderio di buona parte dei suoi abitanti (élite, borghesia, masse popolari) di finirla con le guerre e costruire una struttura in grado di affrontare meglio la realtà del ventesimo secolo e, auspicabilmente, del ventunesimo.
Insomma, è un peccato che tanta energia mentale sia stata spesa per sostenere assurdità e sofismi. Il rapporto tra società e scrittura è affascinante, ma il modo in cui viene affrontato qui è spesso caricaturale.