Stamattina, in attesa dal dentista, ho letto il
Manifesto per l'università pubblica (DeriveApprodi 2008) scritto da Gaetano Azzariti, Alberto Burgio, Alberto Lucarelli e Alfio Mastropaolo. L'occasione era propizia, perché il salasso finale sollecitava la riflessione: in una vampata di gloria ortodontica, tra anestetico e amalgama se n'è andato più di un quinto dello stipendio di gennaio... e, ahimè, a questa busta paga saranno probabilmente sottratte anche le due giornate di sciopero che ho fatto a fine anno. La poltrona del dentista si è quindi rivelata un ottimo posto per riflettere sul costo dei miei entusiasmi sindacali. E anche per rimuginare un po' su questo
Manifesto. Che si legge molto in fretta: in parte perché conta solo 96 pagine, in parte perché è composto soprattutto da chiacchiere e luoghi comuni.
A farmi guardare con fastidio il
Manifesto sono anche, professionalmente, alcune osservazioni linguistiche. Per esempio, a p. 17 Alberto Burgio prende in giro l'attuale Ministro dell'Istruzione, "crudelmente soprannominata Maria Egìda dacché - povera stella - sillabando in Senato il discorsetto stilato dagli uffici scivolò sull'accento di una parola ignota, traducendo l'ostica sdrucciola in una più familiare piana". Questi giochini su minime faccende di lessico mi hanno stufato da tempo. Chi se ne frega se il ministro dice
egìda? Conta la sostanza del discorso (e più ancora quella dei fatti), non una cosa microscopica come questa. Il ministro avrebbe fatto meglio a conoscere la pronuncia esatta, beninteso; e meglio ancora a usare, invece di
ègida, a seconda del contesto, una parola più comprensibile al pubblico generale e, sospetto, non meno precisa, come per esempio
protezione. E vabbè. Non è lì il problema.
Però, che dire se chi prende in giro questi erroretti scrive, come fa Burgio, cose tipo "come verrebbero 'valutati' un Gramsci o un Gobetti, ammesso che qualcuno
darebbe loro una cattedra di filosofia politica?" (p. 9)... Insomma, se vuoi prendere in giro chi fa errori di pronuncia, almeno impara prima
tu l'uso dei modi verbali dell'italiano standard. Né il Burgio ("povera stella" anche lui, immagino, nonostante insegni "Storia della filosofia all'Università di Bologna"...) è solo in questa prassi. Gaetano Azzariti, che "insegna Diritto costituzionale" alla Sapienza, scrive incisi come: "benché, non essendo il mio campo, non
voglio esprimermi con certezze che non possiedo" (p. 46). Lodevole scrupolo, ma reggenza verbale ben poco standard - al punto che cercando con Google si ottengono 905 occorrenze di "benché non voglia" contro una sola occorrenza di "benché non voglio" (in un post su forum). OK, etichettiamo per conto di Burgio anche Azzariti come "povera stella", chiudiamo il discorso sui formalisimi minimi e passiamo finalmente alla sostanza.
Da questo punto di vista, il
Manifesto ha il (piccolo) merito di cominciare a fare i conti con
L'università truccata di Roberto Perotti - che al momento spicca nel dibattito sull'Università perché è uno dei pochi testi che portino avanti una seria argomentazione fondata su dati. Alfio Mastropaolo lo cita, con riserve ma anche con apprezzamenti, alle pp. 24-25. Lo discute anche, implicitamente, quando parla del problema dei fuori corso. Questione fondamentale per la valutazione, perché, come si ripete spesso, se si fanno i conti sul numero di studenti il sistema universitario italiano risulta pesantemente sottodimensionato nel contesto europeo. "In Italia", dice Mastropaolo, "ci sono [sic, ma lasciamo stare...] più o meno un docente per 20 studenti. In Germania ce n'è uno ogni 12, in Gran Bretagna uno ogni 16, in Spagna uno ogni 11" (p. 36).
Il punto è che, come ha notato Perotti, la situazione cambia completamente se si fanno i calcoli con un parametro solo leggermente più sofisticato, quello degli "studenti equivalenti", in cui - semplificando - i fuori corso pesano meno. Operando in questo modo, il numero di studenti per docente in Italia risulta addirittura
inferiore rispetto a quello di molti altri paesi. A questa obiezione fondamentale Mastropaolo risponde: "Epperò [il gusto per l'arcaismo non manca...], mentre da una parte i fuori corso sono in calo, siamo certi che i non frequentanti alleggeriscano di tanto il carico dei professori? Non li si vede a lezione (dove avere 100 studenti o 125 non cambia molto), ma sostengono esami, preparano tesi ed hanno le loro brave esigenze" (p. 36).
Obiezioni del genere sono la tipica risposta da "umanista italiano". Documentazione zero, chiacchiere tante. Perotti non dice genericamente "studenti fuori corso", ma usa l'indicatore dello "studente equivalente". Questo indicatore è ben noto e anche in Italia è stato usato per esempio per ripartire la quota di riequilibrio del FFO universitario. Il vecchio MIUR definiva questo indicatore, semplicemente, come il "rapporto fra il numero totale di esami superati in una data struttura didattica ed il numero medio di esami per anno, previsto per conseguire il titolo di studio nella durata legale, dagli specifici ordinamenti". Cioè, se i tuoi studenti devono superare 5 esami all'anno e la tua struttura ha fatto 50 esami, vuol dire che hai 10 "studenti equivalenti", indipendentemente dal numero degli iscritti effettivi. Insomma, Perotti ha usato parametri che tengono conto proprio dei fattori richiesti da Mastropaolo, cioè esami e tesi. Mastropaolo non ha fatto neanche un tentativo di ricerca su Google per capire di che cosa si stesse parlando; e in fin dei conti, dice l'"umanista italiano" medio, a che cosa serve controllare una definizione quando uno sa scrivere "epperò"?
Insomma, il
Manifesto non è un contributo significativo alla discussione sulla politica universitaria. Peccato, perché ce ne sarebbe un gran bisogno. Per esempio, andando sullo specifico del caso appena discusso, non è affatto detto che l'indicatore dello "studente equivalente" si debba leggere nel senso indicato da Perotti. Il mio dubbio di fondo infatti è: non sarà che gli studenti
diventano non frequentanti e danno pochi esami
anche perché il corpo docente non riesce a gestirli? Non c'è abbastanza gente a lavorare e quindi, semplicemente, gli studenti si perdono per strada. Certo, le dinamiche del perché si diventa fuori corso sono complesse (Perotti ne parla, ma in modo che mi sembra ancora insoddisfacente); ma intanto, è possibile che il fenomeno dei fuori corso possa essere ridimensionato
anche incrementando il corpo docente a un livello tale da gestire, stimolare e seguire
tutti gli studenti che si iscrivono all'Università?