martedì 22 dicembre 2015

Quattro voci sull'italiano nel mondo

  
 
Tra i lavori fatti nell’ultimo anno, sono contento di alcuni interventi che hanno rinforzato le informazioni sulla lingua italiana all’estero presenti su Wikipedia. Lo spunto è nato dal mio corso di Linguistica italiana II del 2014-2015 (Magistrale in Informatica umanistica), che nel Modulo A era dedicato appunto all’italiano allestero.
 
La breve voce Lingua italiana in Marocco l’ho dunque scritta in buona parte io, a scopo dimostrativo, durante il corso. Lavori più consistenti sono stati fatti invece nel 2015 dai miei studenti, in particolare per tre voci:
 Un passo alla volta, si possono integrare molte altre cose. Adesso però sarebbe importante soprattutto intervenire sistematicamente su tutte le voci connesse e fornire un quadro realistico della situazione. Per fortuna, cè chi ha iniziato proprio questo importante lavoro.
 

giovedì 12 novembre 2015

Krugman a colazione


 
La rubrica di Paul Krugman sul New York Times
Tra le curiose passioni che mi sono venute negli ultimi anni c’è anche quella per il nuoto in piscina. Nata a Hong Kong, consolidatasi con le nuotate di gruppo ICoN, al momento sembra piuttosto stabile. Il teatro degli eventi è la Piscina comunale di Pisa, dove vado di solito poco dopo le 8, nell’ora meno frequentata: tra la ressa dell’apertura alle 7 e il graduale affollamento più tardi.
 
All’uscita, prima di iniziare la giornata lavorativa vado poi spesso a prendere brioche e cappuccino al bar Enrico sull’Aurelia. Locale che ha il suo interesse di per sé, ma dove una delle mie soddisfazioni fondamentali è sistemarmi a leggere il New York Times sul telefono mentre faccio colazione. E il lunedì e il venerdì, per fortuna, questo coincide con l’uscita della rubrica di Paul Krugman, che se ben vedo viene regolarmente aggiornata alle 9 ora italiana.
 
Forse non è inutile spiegare chi è Paul Krugman. Economista, premio Nobel, le sue posizioni politiche sono quelle del liberal americano, con cui mi trovo in discreta consonanza; inoltre è un esperto di fantascienza, il che non guasta mai. Da oltre quindici anni scrive la sua rubrica bisettimanale per il New York Times, che quasi da altrettanto tempo mi assiste e mi conforta.
 
La cosa interessante di Krugman è che la sua rubrica (in inglese, ovviamente) è un’impressionante fusione di ricerca e di scrittura. I testi presentano argomenti economici complessi in forma accessibile anche al lettore generico. Esempi e riferimenti richiedono, evidentemente, un grande lavoro di ricerca e verifica delle fonti anche solo per poche righe – e in alcuni casi, con ogni evidenza, uno staff di collaboratori. Al confronto con i tanti opinionisti venditori di fumo, negli USA o in Italia o altrove, è un gradevolissimo cambiamento.
 
Inoltre i testi sono scritti con ammirevole sofisticazione retorica: Krugman bilancia l’autonomia di ogni singolo articolo con il suo inserimento in un discorso più complesso, dosa rimandi esterni e approfondimenti interni, tiene un tono brillante ma non eccessivamente colloquiale… insomma, una lezione di professionismo che ha pochi equivalenti nel giornalismo mondiale. E nessuno a me noto, temo, in quello italiano.
 
Tuttavia l’aspetto che più mi colpisce non è la forma ma il contenuto. Una buona parte degli interventi di Krugman negli ultimi anni è dedicata infatti a dire l’ovvio. Cioè a far notare, per esempio, l’inconsistenza delle proposte economiche e di bilancio sostenute da molti politici; il fatto che predizioni che puntualmente non si realizzano vengano ripresentate ciclicamente, con motivazioni diverse, dalle stesse persone; il tornar fuori nel dibattito economico di idee che sono state smentite più volte dall’esperienza; e così via. In particolare, Krugman nota che spesso quando c’è un dibattito tra due parti i mezzi di comunicazione riferiscono a pari titolo le opinioni dell’una e quelle dell’altra… anche quando quelle di una parte sono con ogni evidenza assurde.
 
La credibilità degli esperti è spesso data dal conoscere e saper realizzare cose difficili. Queste conoscenze e queste capacità sono indispensabili per il mondo moderno, ma non è detto che coincidano con la comprensione di altre cose, magari semplici ma da vedere con chiarezza. E in parallelo, c’è una certa reticenza nei mezzi di comunicazione (e nella ricerca) a criticare le opinioni di chi si presenta, a qualunque titolo, come “esperto” o “persona seria”. Krugman è una delle poche persone che riescono a uscire da questo meccanismo e dire pane al pane e vino al vino basandosi su una conoscenza di prima mano dei dati; per questo mi leggo i suoi articoli e ne ricavo un po’ di sostentamento, al volo, prima che il cappuccino si raffreddi.
 

martedì 13 ottobre 2015

HaPoC 2015

  
 
HaPoC 2015: logo di Elisabetta Mori
Alla fine della scorsa settimana sono stato molto impegnato con il convegno HaPoC 2015, di cui ero uno degli organizzatori. I convegni HaPoC (History and Philosophy of Computing) hanno cadenza biennale; l’ultimo si è tenuto appunto a Pisa dall’8 all’11 ottobre e mi sembra che abbia retto bene il confronto con i precedenti incontri di Ghent (2011) e Parigi (2013).
 
In sostanza, si è trattato di quattro giorni di interventi sulla storia e sulla filosofia dell’informatica… io mi piazzo saldamente dal lato della storia, e della storia esterna, ma questa è solo una delle tante angolazioni da cui è stata affrontata la materia. Senza nulla togliere agli altri, per ovvi motivi di ricerca per me è stato comunque particolarmente interessante un intervento di Federico Nanni e Rudi Bonfiglioli, From Close to Distant and Back: how to read with the help of machines.

Per quanto riguarda i numeri, in totale hanno partecipato ad HaPoC 32 relatori, in buona parte provenienti dall’Europa settentrionale. Sede del convegno, il Museo degli strumenti per il calcolo, che fa parte della rete museale dell’Università di Pisa.
 
In attesa di pensare alla pubblicazione degli atti, al momento del convegno sono usciti a cura di Fabio Gadducci e mia i “pre-proceedings”: Fabio Gadducci e Mirko Tavosanis (a cura di), Preliminary Proceedings of the Third International Conference on the History and Philosophy of Computing (HaPoC 2015), Pisa, Pisa University Press, 2015, pp. VIII + 95, ISBN 978-88-6741-576-2, € 7.
 

martedì 6 ottobre 2015

Mia intervista su Community


 
Community RAI: no, io non sono nessuno dei due
Ieri è andata in onda una mia intervista nella prima puntata della nuova stagione del programma RAI Community, dedicato agli italiani all’estero. Intervistato dal conduttore, Alessio Aversa, ho presentato brevemente le nuove attività del Consorzio ICoN; in particolare, i prossimi contributi alla Settimana della lingua italiana nel mondo e l’importante intervento della Fondazione Sicilia per il sostegno alle borse di studio.
 
Community viene trasmesso in America, Asia, Australia e Africa nel pomeriggio secondo questa scaletta, che riflette le complessità dell’emigrazione italiana:
 
Rai Italia 1 (Americhe). New York – Toronto: dal lunedì al venerdì ore 17.30. Buenos Aires: dal lunedì al venerdì ore 18.30.
 
Rai Italia 2 (Asia-Australia). Pechino – Perth: dal lunedì al venerdì ore 14.45. Sydney: dal lunedì al venerdì ore 17.45.
 
Rai Italia 3 (Africa). Johannesburg: dal lunedì al venerdì ore 15.30.
 
In Italia e in Europa il programma non viene trasmesso. Le puntate, dopo un paio di giorni, dovrebbero però essere disponibili all’indirizzo www.raitalia.it.
 
Per gli interessati: il mio intervento è molto breve, ma, cercando la puntata di Community del 5 ottobre 2015, dovrebbe essere molto facile da trovare, visto che è proprio in coda alla trasmissione!
 

giovedì 24 settembre 2015

Penne e computer


Cè chi dice che le penne sono sul punto di tornare in scena alla grande, grazie alla tecnologia. Di sicuro, questo periodo sta portando qualche novità, per chi si interessa di scrittura a mano su computer. 
 

Confesso che io non solo me ne interesso ma, da qualche anno, la pratico, usando i sistemi Windows che una volta venivano definiti a “inchiostro digitale”. Tecnologia attiva da quasi 15 anni, rimasta assolutamente sottoutilizzata ma molto funzionale. Uno dei suoi punti chiave è che riesce a riconoscere con un buon livello di accuratezza ciò che viene scritto a mano: funziona piuttosto bene anche con il mio corsivo... Ho iniziato a trafficarci a inizio 2012 comprando un ottimo, anche se lento, HP TouchSmart, che in mia compagnia si è visto Russie, Cine e Mongolie e fa ancora i suoi servizi. Poi sono passato al più pratico Surface Microsoft.
 
Certo, il Surface continua a essere un apparecchietto di nicchia, e apparentemente viene spesso confuso con un iPad – ma in passato andava anche peggio. Le ultime versioni sono discretamente funzionali, anche se Windows 10 da questo punto di vista non è affatto un passo avanti; il 6 ottobre sarà probabilmente presentata la quarta generazione dei Surface, e sono curioso di vedere se questo porterà qualche innovazione significativa.
 
Tuttavia, il Surface da molti punti di vista continua a essere un aggregato di sottosistemi con ampio margine di miglioramento. Per esempio, un residuo di latenza e lo spazio eccessivo che ancora separa la penna dal “foglio” sottostante rendono difficile legare bene le lettere tra di loro, quando si scrive in corsivo. Sono certo stati fatti molti passi avanti rispetto al TouchSmart che ho comprato nel 2012 (per esempio, adesso vengono riconosciuti anche i caratteri in corsivo maiuscolo!), ma hardware e software ancora non interagiscono al meglio

Alcuni limiti del sistema sono legati a scelte tecnologiche, altri sembrano solo il frutto di confusione operativa. Per esempio, una delle caratteristiche distintive degli ultimi Surface è il bottone violetto collocato in cima alla penna; il quale non serve a far uscire una punta a scatto, ma a far partire il programma OneNote, lo strumento Microsoft per permettere la scrittura di appunti. La funzione è utile e può addirittura ridestare il Surface dall’ibernazione... però con Windows 10 è diventata difettosa e fa partire in automatico la sola versione ridotta di OneNote. In passato era infatti possibile configurare la penna perché facesse partire la versione a funzionalità complete, OneNote 2013, se disponibile sul computer. Adesso non più, e chissà quanto ci vorrà a risolvere un problema così marginale ma così fastidioso per chi fa un uso intensivo del sistema.
 
In questo contesto, Apple ha presentato finalmente la sua versione di computer con penna: l’iPad Pro. Ancora non disponibile, caro più o meno quanto un Surface, ma dotato, secondo Apple, di una penna fantastica. Anche la penna del Surface è piuttosto flessibile (è sensibile alla pressione), ma ciò che si vede nel video qui sotto appartiene a un’altra categoria:
 


Anche alcuni commenti esterni su questa penna sono entusiastici. Ma non va dimenticato che un iPad non è l’equivalente di un computer da scrivania. Anche il riconoscimento della scrittura non è supportato, se ben capisco, dal sistema operativo. La penna meravigliosa produrrà disegni destinati a rimanere tali, senza che sia possibile convertirli facilmente in testo manipolabile in altro modo.
 
L’incrocio positivo tra le tecnologie Apple e Microsoft sembra perfettamente possibile ma ancora molto al di là da venire. Nel frattempo, prendo appunti, un po’ goffamente, con Surface.
 

giovedì 17 settembre 2015

Pistolesi, Diamesia


 
Ho già avuto occasione di esprimere in pubblico tutti i miei dubbi sulla diamesia e sul connesso concetto di “variazione diamesica”. Questa etichetta dovrebbe indicare il modo in cui varia la lingua in rapporto al mezzo di comunicazione, così come la “variazione diafasica” indica il modo in cui varia la lingua in rapporto alla situazione comunicativa, tra formale e informale.
 
L’etichetta (nata nella linguistica italiana, non nella sociolinguistica internazionale) a prima vista sembra anche ragionevole, e lo sembra ancora di più se applicata al caso italiano – che per secoli ha visto differenze molto forti tra scritto e parlato. Tuttavia, se si guarda con più attenzione, si scopre che il discorso non tiene. La variazione diamesica si rivela in buona parte variazione diafasica, e questo mi sembra stia diventando rapidamente il consenso della comunità dei linguisti.
 
Come è nata però, e come si è diffusa, l’etichetta di “variazione diamesica”? Elena Pistolesi ha da poco fornito un importante contributo storico in questa direzione. In una sua sintesi intitolata Diamesia: nascita di una dimensione viene infatti ricostruita la storia della diamesia. Il lavoro è di estremo interesse per varie ragioni; non ultima, l’evidenza con cui mostra come un concetto così traballante è riuscito a divenire di moda e ad entrare in un’intera generazione di studi e manuali.
 
Questo passo falso della linguistica ha avuto comunque un lieto fine, perché negli ultimi anni l’errore è stato individuato: Elena Pistolesi considera ormai “prevalente” la “tendenza (…) all’assorbimento della diamesia nella diafasia” (p. 29). La ricerca scientifica, per fortuna, si autocorregge… ma sorprende la facilità con cui sono state accettate definizioni che in pratica si smontano sulla base del semplice buon senso.
 
Comunque, nella sostanza, il termine “diamesia” è stato inventato da Alberto A. Mioni nel 1983. Alla sua base c’era, al tempo, la confluenza di diversi filoni di ricerca: sull’italiano popolare, sul francese contemporaneo, sul parlato comune. Soprattutto, però, le sue origini sono state condizionate dal rapporto con il dibattito allora vivo sull’italiano popolare. Ripercorro qui le sezioni in cui è diviso il lavoro di Elena Pistolesi.
 
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1. Dall’opposizione al continuum
 
Mioni definisce il rapporto scritto / parlato non come un’opposizione polare ma un continuum, con molti gradi intermedi. In realtà però gli autori portati da Mioni a sostegno di questa ricostruzione (Gregory, De Mauro e Nencioni) non descrivono un continuum, o lo descrivono riferendosi a qualcosa di diverso, facendo molte considerazioni “che difficilmente possono essere integrate nella proposta diamesica” (p. 33). La nozione di continuum si genera quasi da sola.
 
2. La diamesia come dimensione di variazione.
 
Partendo dalle considerazioni di Mioni sull’italiano popolare, che distinguono tra uso scritto e uso parlato, Elena Pistolesi nota che
 
Una volta affermata l’opportunità di considerare separatamente la relazione scritto / orale dalla diafasia, emerge quanto sia difficile definire la prima senza ricorrere alla seconda. Di fatto, come nota Voghera (…), non esiste una varietà che si possa caratterizzare solo dal punto di vista mediale, indipendentemente dalle altre (p. 34).
 
Inoltre, è interessante notare che la proposta originale della diamesia si basa sullo studio dell’italiano popolare, in cui le differenze tra diafasia e diamesia si annullano.
 
2.1. Intrecci di varietà
 
Va notato che diversi studi, italiani e no, si sono posti il problema di evitare “la confusione tra canali e fenomeni variazionali collegati o prevalentemente associati ad esso” (p. 37). Infatti, com’è ovvio, un conto è ciò che si può fare con lo scritto e ciò che si può fare con il parlato. Facendo esempi banali, nello scritto, anche quando si trascrive fedelmente una conversazione, non si può distinguere una “voce” femminile da una maschile, ed è molto difficile indicare anche l’intensità della pronuncia o altro.
 
Nella descrizione della lingua, alla differenza di strumento di comunicazione si può quindi per esempio sovrapporre quella “concezionale”, di vicinanza o distanza comunicativa, eccetera. In generale, in questi modelli la diafasia domina (p. 37) e allo strumento di comunicazione, scritto e parlato, resta un ruolo marginale.
 
2.2. La diamesia in Gaetano Berruto
 
Uno dei paragrafi più importanti del lavoro è dedicato a mostrare il modo in cui il concetto di “diamesia” è stato consacrato e diffuso da Gaetano Berruto, che già nel 1985 lo accettava per definire le dimensioni di variazione. L’inclusione del concetto nel fondamentale lavoro di Berruto Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo (1987) fece sì che la diamesia venisse “adottata dalla comunità scientifica italiana e riprodotta nei manuali” ignorando le cautele espresse da Berruto stesso (p. 40; un’antologia delle sfumate posizioni di Berruto in materia si trova alle p. 41-42).
 
3. L’italiano trasmesso
 
Il concetto di “italiano trasmesso”, collegato a quello di “diamesia” può essere trattato rapidamente: è infatti stato evidente fin da subito che il “trasmesso” non ha caratteri linguistici propri e che non ha quindi molto senso cercare di definirlo.
 
4. Le prospettive globali
 
Lo spazio qui viene dedicato soprattutto (p. 45 e successive) a citare le numerose studiose che hanno descritto in modo più corretto il rapporto tra scritto e parlato. Carla Marco, Monica Berretta e Miriam Voghera hanno infatti riconosciuto bene la realtà dei fatti e hanno semmai contribuito a descrivere il parlato non in opposizione allo scritto, ma secondo le proprie caratteristiche.
 
5. Considerazioni conclusive
 
L’eliminazione della variazione diamesica dalla lista degli assi di variazione usati per descrivere la lingua è un passo importante. Non occorre però cadere nell’eccesso opposto, perché per esempio scindere il canale dei parametri concezionali è una semplificazione (p. 50). La scelta del canale è per esempio inscindibile dall’enunciazione.
 
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Qui termina il lavoro, e mi è difficile non concordare. Per quanto riguarda i problemi determinati dal mezzo di comunicazione, sulla base anche dell’esperienza dell’italiano del web io mi sto servendo da tempo del concetto di “vincoli pragmatici”, cioè semplicemente delle limitazioni prodotte dalla scelta non solo del canale (scritto o parlato) ma del sottocanale (lettera, e-mail, messaggio su WhatsApp…) della comunicazione. Numerose sono però le questioni che devono essere ancora gestite in modo più sofisticato.
 
Elena Pistolesi, Diamesia: la nascita di una dimensione, in Parole, gesti, interpretazioni: studi linguistici per Carla Bazzanella, a cura di Elena Pistolesi, Rosa Pugliese e Barbara Gili Fivela, Roma, Aracne, 2015, ISBN 978-88-548-8407-7, pp. 27-56, letto in estratto inviato dall’autrice.
 
 

giovedì 3 settembre 2015

Corso su scritto e parlato


 
Per il prossimo anno accademico (2015-2016) ho deciso di dedicare il primo modulo di uno dei miei corsi al tema La variazione linguistica tra scritto e parlato
 
La definizione potrebbe suonare goffa: in fin dei conti, per descrivere questo tipo di variazione linguistica si usa spesso, almeno in Italia, l’etichetta di “variazione diamesica”. Questa etichetta mi sembra però, tutto sommato, non molto adatta e sento molto il bisogno di chiarirmi le idee in proposito… una serie di pubblicazioni recenti mi incoraggia in questa direzione.
 
Il modulo presenterà il rapporto tra scritto e parlato partendo dal caso molto specifico dell’italiano. Tuttavia, spero di potermi allargare spesso a questioni più generali! Nonché di presentare contemporaneamente sia, secondo una tradizionale descrizione linguistica, le caratteristiche che distinguono scritto e parlato, sia, in modo più originale, le attività che oggi vengono svolte attraverso il parlato oppure attraverso lo scritto. Il che oggi porta anche a occuparsi dei dispositivi elettronici per la dettatura, ai lavori svolti attraverso Siri e Cortana e così via.
 
In passato mi sono già occupato di argomenti simili in diversi post su questo blog, tra cui: 
 Nelle prossime settimane conto di pubblicare qui diversi altri post dedicati alla questione. L’etichetta generale sarà “Scritto e parlato”.
 
Il corso fa parte della Laurea magistrale in Informatica umanistica dell’Università di Pisa. Le lezioni dovrebbero partire nell’ultima settimana di settembre.
 

martedì 1 settembre 2015

Baron, Words onscreen


 
Naomi Baron, Words onscreen
Il nuovo libro di Naomi Baron mi è piaciuto molto.
 
Più di sei anni fa avevo presentato sinteticamente un precedente libro della stessa autrice, Always On, che si occupava anche di questioni linguistiche. In questo nuovo testo la linguistica è assente. Words onscreen si occupa invece, in un certo senso, di antropologia della lettura. Dico “in un certo senso” perché il quadro d’assieme non è molto definito e tratta infinite questioni diverse. Ci sono però ottime ragioni perché sia così.
 
Nel mondo contemporaneo, infatti, la “lettura” si presenta in forme molto variate e viene portata avanti dai lettori in modi molto variati. Un conto è leggere per studiare, un conto leggere per passare il tempo, e così via. L’uso di molte angolazioni è quindi l’unico modo possibile per dare conto di questa realtà.
 
Ciò significa anche creare un libro composto di innumerevoli microcapitoli, poco collegati gli uni agli altri e spesso di taglio quasi giornalistico. Dalle questioni sulle aliquote IVA applicate agli e-book in Europa alla preferenza giapponese per i fax, dal problema di leggere poesie su schermo fino ai sistemi per riprodurre l’odore di biblioteca, si salta continuamente da un argomento all’altro. Il che, se vogliamo, è anche paradossale, visto che uno dei fili conduttori del lavoro di Naomi Baron è proprio l’importanza dei testi che richiedono una lettura approfondita e meditata.
 
Al di sotto delle sfaccettature ci sono peraltro proprio questi fili conduttori – anche se non arrivano mai (cosa comprensibile, visto quanto detto sopra) a comporre un quadro molto coerente. Il principale di tutti è il tema della persistente importanza della lettura su carta. Dopo tanti discorsi sui nativi digitali, infatti, ciò che si vede è che anche le generazioni più recenti trovano più pratico e funzionale usare la carta per molti tipi di lettura, il che fa pensare fortemente che no, non sia questione di abitudini: per certi tipi di compito la carta è proprio uno strumento migliore. Words onscreen fornisce da questo punto di vista la sintesi più completa e aggiornata dei molti studi recenti che documentano questo non imprevedibile stato di cose.
 
Altro paradosso: ho letto questo libro su Kindle e ho la nettissima sensazione che, proprio come previsto dall’autrice, sia molto difficile superare i limiti dell’interfaccia elettronica per rendermi ben conto del quadro d’assieme. Potessi scorrerlo su carta, forse troverei più facile rimettere insieme le sfaccettature e rendermi conto del discorso di base.
 
Detto questo, visto che ci sono fortissime spinte a sostituire la carta con lo schermo, forse si può saltare subito al discorso finale:
 
The real question is whether the affordances of reading onscreen lead us to a new normal. One in which length and complexity and annotation and memory and rereading and especially concentration are proving more challenging than when reading in hardcopy. One in which we are willing to say that if the new technology doesn’t encourage these approaches to reading, maybe these approaches aren’t so valuable after all (p. 235).
 
Naomi Baron, senza assolutamente opporsi all’uso ragionevole degli strumenti di comunicazione elettronici, ovviamente non concorda con questa risposta. Altrettanto ovviamente, non concordo neanch’io. Lavorare sui testi in modo approfondito è in molte situazioni preferibile al saltellare da una frase all’altra. La nostra società dovrebbe quindi essere capace di fare un esercizio non troppo difficile: saper scegliere, caso per caso, gli strumenti migliori per portare a termine un lavoro, senza farsi sviare dall’ideologia del “tutto digitale”. Del resto, come mostrano molte delle indagini su studenti richiamate nel corso del libro, questo è ciò che i singoli fanno senza troppi problemi in innumerevoli occasioni.
 
Naomi Baron, Words onscreen: the fate of reading in a digital world, Oxford, Oxford University Press, 2014, letto in versione Kindle, pp. dichiarate 321, € 12,88, ASIN B00QH3MDUE, ISBN della versione di riferimento per i numeri di pagina 0199315760.
 

giovedì 6 agosto 2015

Appuntamento alla Versiliana


Il logo degli Incontri al Caffè della Versiliana
  
 
Oggi pomeriggio, alle 18:30, parteciperò a uno degli Incontri al caffè della Versiliana.
 
Il titolo dell’incontro di oggi è L’ultima notizia. Le nuove frontiere della comunicazione. Conduce David De Filippi, mentre gli altri partecipanti saranno Dario Moccia, noto per i suoi video su YouTube, e Marco Gasperetti, giornalista del “Corriere della Sera”.
 
L’argomento è, come minimo, stimolante e la discussione promette bene. Se qualche lettore di questo blog è nei paraggi… possiamo vederci a Marina di Pietrasanta (LU) presso la Fondazione La Versiliana in viale Morin 16!
 

martedì 4 agosto 2015

Carta, cartella e cartoccio

   
 
Carta, cartella e cartoccio su Fahrenheit
Innegabile: tutto il 2015 è stato pesante. Tanto lavoro amministrativo, poco respiro. Ci sono state diverse soddisfazioni, ma la situazione è insostenibile – e quindi sono impegnato a progettare interventi strutturali!
 
Beh, adesso è agosto e spero di avere un po’ di tempo per chiudere qualche pratica in sospeso.
 
Nel frattempo, un rapido recupero. Il 25 giugno la trasmissione di Radio Rai 3 Fahrenheit mi ha invitato a partecipare a un dibattito sul tema Carta, cartella e cartoccio. Ovvero, il destino della carta nel mondo digitale. L’audio del dibattito è disponibile sul sito Rai – e sono molto contento di come è andato il discorso, anche se il mio cognome è stato sbagliato al momento delle presentazioni (ma ci sono abituato).
 
A chi segue questo blog, le posizioni che ho espresso nel dibattito non risulteranno nuove… e infatti ho cercato soprattutto di rinviare da un lato alla storia della carta in Cina così come raccontata da Tsien Tsuen-Hsuin, e dall’altro al classico studio sul “mito dell’ufficio senza carta” realizzato da Sellen e Harper, ancora valido nonostante l’avvento dei lettori di e-book e dei tablet. Adesso, certo, c’è una serie di novità, e il nuovo libro di Naomi Baron proprio su questo argomento. Spero. Caldamente. Di poterne parlare. Ad agosto.
 

venerdì 29 maggio 2015

Scritture brevi a Macerata


 
Manifesto del convegno Scritture brevi
Oggi mi trovo a Macerata, dove sto partecipando al convegno del mio PRIN SCRIBE - Scritture brevi (28-30 maggio 2015). Una buona parte delle attività può essere seguita su Twitter, grazie a Francesca Chiusaroli, attraverso l’hashtag #scritturebrevi.
 
Nella prima giornata del convegno ho presentato il mio contributo Tipologie di testi brevi prodotti nei contesti di apprendimento guidato L2/LS. In pratica, il problema di come inserire in un corpus dedicato all’analisi linguistica molti lavori scolastici che spesso non sono affatto “testi” nel senso linguistico. Per esempio, alla scuola elementare un “dettato” assomiglia molto a un “tema”, e fornisce molte informazioni sulle competenze linguistiche di un bambino, ma non è un atto comunicativo: è un esercizio meccanico.
 
Non è un problema particolarmente difficile da risolvere, com’è evidente. Però offre lo stesso una serie di spunti interessanti: tra cui il rendersi conto che oggi gli esseri umani producono e consumano “oggetti linguistici” che non sono testi ma hanno il loro ruolo nel mondo della comunicazione.
 

lunedì 20 aprile 2015

Bando assegno di ricerca per PRIN in Linguistica italiana

Per il PRIN di cui gestisco un’unità locale (“Modello B”) sono alla ricerca di candidati per un assegno di ricerca annuale in Linguistica italiana. Le competenze richieste riguardano in sostanza la capacità di analizzare linguisticamente corpora di testi di apprendenti (livello B2 o superiore). Il bando è disponibile sul sito dell’Università di Pisa; la scadenza, vicinissima, è il 27 aprile.
 

giovedì 19 marzo 2015

Aggiornamento rapido

Non ho pubblicato nulla nell’ultimo mese e mezzo… la ragione, naturalmente, è il lavoro.
 
Faccio comunque un rapido aggiornamento: poche settimane fa sono stato riconfermato Direttore del Consorzio interuniversitario ICoN. Ne ho approfittato per intensificare le mie attività! Lanciatissimi nella ristrutturazione dei siti web, siamo anche impegnati in una serie di corsi di formazione concentrati in Sudamerica.
 
Oggi però per fortuna parto per un breve viaggio in India. Spero di trovare diverse cose interessanti per la storia delle attività italiane all’estero – ulteriori informazioni, spero, appariranno a breve su queste pagine.
 

giovedì 29 gennaio 2015

boyd, It’s complicated

 
danah boyd, It's complicated
Non so se gli slogan sui “nativi digitali” hanno bisogno di sepoltura. In fin dei conti, anche se ogni tanto saltano di nuovo fuori, come gli zombie di un brutto film, ciò accade sempre più di rado. Il che non ha nulla di sorprendente: non solo gli slogan erano remotissimi dalla realtà, ma venivano contraddetti così di frequente dall’esperienza comune che il difficile non è spiegarsi la loro scomparsa, ma la loro (per quanto effimera) popolarità.
 
Nel caso ci fosse ancora bisogno di una lapide, tuttavia, l’ultimo libro di danah boyd (sì, si scrive così, senza maiuscole) potrebbe tornare utile. It’s complicated: The social lives of networked teens è infatti dedicato a mostrare la sostanziale continuità di abitudini, atteggiamenti e ragionamenti tra gli adolescenti statunitensi contemporanei e i loro predecessori. La differenza rispetto ai teorizzatori dei “nativi digitali” non è però solo nei giudizi: questo libro si basa su ricerche di prima mano, non su slogan privi di documentazione – e scusate se è poco!
 
L’autrice del resto prende di petto tutta la retorica sui “nativi digitali”, dichiarando che “is worse than inaccurate: it is dangerous” (p. 197). Difficile darle torto. Credere che l’uso di semplici interfacce di comunicazione fornisca intuizioni privilegiate sul mondo significa mettersi sulla strada giusta, soprattutto nel settore educativo, per smantellare ciò che fino a oggi si è fatto nel settore (e non è poco). Giusto per fare un esempio, l’esperienza mostra che né gli adulti né i ragazzi sono particolarmente bravi a capire in che modo funziona un motore di ricerca come Google, e quindi a capire che i risultati proposti spesso non sono neutri, ma sono il frutto di un’attenta selezione editoriale da parte di un’azienda privata. O, in altri termini:
 
just because people have access to the internet does not mean that they have equal access to information. Information literacy is not simply about the structural means of access but also about the experience to know where to look, the skills to interpret what’s available, and the knowledge to put new pieces of information into context (p. 172).
 
Va detto che le osservazioni presentate nel libro, e di cui quella appena vista è un buon esempio, sono quasi tutte banali. Si limitano infatti a esplicitare ciò che, in molti paesi sviluppati, è ben visibile a chiunque abbia a che fare con adolescenti. Tanto per dirne una, gli strumenti elettronici di comunicazione, più che creare strane reti sociali, contribuiscono di solito a rafforzare i legami con gruppi tradizionali. In Italia, per quanto manchino studi paragonabili, non si fa fatica a trovare equivalenti dei gruppi descritti da danah boyd: “quelli della parrocchia”, “i ragazzi del campetto”, “i compagni di scuola”, “gli amici del mare”… E “most teens aren’t addicted to social media; if anything, they’re addicted to each other” (p. 80). Tutto banale, insomma. Ma queste banalità non vengono dette quasi da nessuno in modo esplicito, anzi! In una situazione del genere chiamare le cose con il loro nome è quasi sovversivo e la banalità non solo è rivoluzionaria ma richiede un sacco di sforzo per essere raggiunta.
 
Oltre un certo livello, certo, la banalità (illuminante) finisce e i dati non parlano da soli. Somiglianze e differenze sociali non possono essere messe su una bilancia e misurate in modo oggettivo. Però danah boyd mette insieme una bella mole di esempi e di documentazione. Alla fine si vede che, per esempio, gli studenti statunitensi su Facebook tendono comunque a fare amicizie all’interno del proprio gruppo etnico, riproducendo le dinamiche che si trovano all’esterno. E quindi una studentessa che vive in una scuola multirazziale può accorgersi con un po’ di sorpresa che in realtà tutti i suoi amici che commentano le sue attività su Facebook hanno la pelle dello stesso colore della sua (p. 165).
 
Alla base della popolarità delle tecnologie informatiche danah boyd indica anche una causa specifica: la graduale infantilizzazione degli adolescenti nella società statunitense. Tagliati fuori dal mercato del lavoro, privi di luoghi d’incontro non sorvegliati nella realtà, spesso impossibilitati a spostarsi, senza macchina (né motorino, evidentemente…) all’interno di grandi suburbi privi di trasporti pubblici o nelle campagne, gli adolescenti si rivolgono alla comunicazione in rete per semplice mancanza di alternative. “What the drive-in was to teens in the 1950s and the mall in the 1980s, Facebook texting, Twitter, instant messaging, and other social media are to teens now” (p. 20). Tesi un po’ forte, non dimostrata in modo rigoroso, e che probabilmente è solo una piccola componente di ogni possibile spiegazione. Mentre è senz’altro più evidente che, per esempio,
 
Teens often want to be with friends on their own terms, without adult supervision, and in public. Paradoxically, the networked public they inhabit allow them a measure of privacy and autonomy that is not possible at home where parents and siblings are often listening in (p. 19).
 
Nel libro in pratica non si parla di questioni di competenza della linguistica (anche se un certo spazio viene dedicato al modo in cui le comunicazioni vengono “cifrate” per renderle comprensibili solo ad alcuni destinatari). Anche gli studiosi di lingua contemporanea possono tuttavia ricavare molte utili informazioni di contesto da questa fonte. E, ciliegina sulla torta: oltre ai formati tradizionali, il libro è scaricabile gratuitamente in PDF.
 
danah boyd, It’s Complicated: The social lives of networked teens, New Haven e Londra, Yale University Press, 2014, pp. xi + 281, download gratuito in formato PDF, ISBN 978-0-300-16631-6; scaricato da http://www.danah.org/books/ItsComplicated.pdf . Di questo libro è stata fatta anche una tempestiva traduzione italiana, che però non ho ancora visto.
 

martedì 27 gennaio 2015

La comunicazione politica italiana e Facebook

 
«...e tu pensi che un premier abbia il tempo di rispondere ai post?»
Sul “Magazine” del sito Treccani.it è uscito un mio nuovo contributo. Il titolo è:  «...e tu pensi che un premier abbia il tempo di rispondere ai post?». La politica su Facebook

Il contributo fa parte di uno speciale interessante e articolato: Parola di leader. Strategie del linguaggio politico in Italia. All’interno, per esempio, Michele Cortelazzo si chiede se il politichese si è davvero rinnovato. Stefania Spina esamina la comunicazione politica su Twitter. E così via.

Il mio contributo affronta un tema piuttosto ampio. Il quadro d’assieme, però, si può riassumere in poche parole: i politici italiani usano Facebook per fare una comunicazione molto tradizionale, istituzionale, “da uno a molti” e priva di dialogo. Il che si contrappone sia alle potenzialità della rete, sia a ciò che in pratica avviene su Twitter. Su Twitter infatti diversi politici commentano e rispondono pubblicamente a molte osservazioni... come nel caso, ben noto, di Maurizio Gasparri. Certo, anche su Twitter i casi del genere sono piuttosto ridotti. Però esistono, mentre su Facebook no.

Anche le probabili ragioni della differenza sono semplici da individuare. Su Facebook c’è la gente: metà della popolazione italiana (!). E, soprattutto, c’è anche la ggente: gruppi consistenti di persone che, da semiprofessionisti, intervengono, commentano e insultano pubblicamente il politico a ogni messaggio.

Questo pubblico di affezionati insultatori non è un campione rappresentativo del Paese, naturalmente, però fornisce affascinante materia di indagini al linguista. Un po’ perché porta allo scoperto tutte le varietà dell’italiano, comprese quelle in passato difficili da documentare, come l’italiano popolare. E un po’ perché mostra, al di là di torti e ragioni, come in molte situazioni il semplice volume delle urla possa cancellare ogni tentazione di dialogo.
 

venerdì 23 gennaio 2015

Attività ICoN

 
Lunga vita al Consorzio interuniversitario ICoN!
Come dicevo la settimana scorsa, è un peccato non raccontare tutte le splendide cose che abbiamo fatto negli ultimi mesi al Consorzio interuniversitario ICoN!
 
Lavorando giorno per giorno a queste attività, siccome il lavoro è impegnativo al massimo, è facile perdersi nelle singole scadenze. Però ogni tanto mi fermo un attimo, mi guardo alle spalle e rimango impressionato anch’io da tutto quello che abbiamo fatto e da tutto quello che stiamo facendo. A me è capitato di farlo giusto ieri, al termine di una lezione introduttiva in presenza per il nostro Master in Traduzione specialistica inglese > italiano. Queste settimane poi sono particolarmente adatte a una riflessione, visto che sono ormai arrivato alla scadenza del mio mandato quadriennale (eh, sì, il tempo vola!) come Direttore del Consorzio.
 
Giusto per citare le novità più vistose del 2014… A ICoN abbiamo:
 
  • erogato corsi di lingua a distanza per quasi 700 studenti universitari brasiliani in arrivo in Italia con il programma Ciência sem Fronteiras
  • prodotto e iniziato a diffondere un corso online per l’esame “AP® Italian Language and Culture” negli Stati Uniti, in collaborazione con lo IACE 
  • organizzato un Seminario a Roma su “L’italiano come risorsa per il sistema Italia”, producendo anche gli Atti su carta e come e-book scaricabile gratuitamente
  • tenuto, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico del Consolato d’Italia a Mendoza in Argentina, un corso di aggiornamento a distanza per i docenti della Federación de Entidades Cuyanas para la Instrucción y Cultura en Lengua Italiana (F.E.C.I.C.L.I)
 
Il tutto in aggiunta alla prosecuzione regolare di tante iniziative che hanno ormai molti anni di storia alle spalle: il Corso di Laurea in Lingua e cultura italiana per stranieri, i corsi di lingua per Trentini nel Mondo, tre Master, i corsi di lingua in autoapprendimento online…
 
Di ICoN ho già parlato in diverse occasioni su questo blog, ma in modo un po’ sparso. Approfitto di questo post per dichiarare la mia profonda soddisfazione nell’aver potuto contribuire per molti anni a una struttura che può vantare un programma stimolante e visionario e la collaborazione di tante persone eccezionalmente brave e competenti!
 

martedì 20 gennaio 2015

Fortis, Scrivere per il Web

 
Ho apprezzato molto il manuale di Daniele Fortis Scrivere per il Web. L’avevo ricevuto in copia omaggio dall’editore all’inizio del 2014, ma solo adesso sono riuscito a leggerlo – per fortuna, ne è valsa la pena!
 
Il libro ha un’impostazione molto in sintonia con le mie idee di didattica nel settore. Parte infatti dalle caratteristiche del mezzo-Web, descritte in modo molto simile a quello che ho trovato utile applicare per anni nei miei corsi. Passa poi già nel secondo capitolo a trattare di struttura del testo, enunciando principi classici (la piramide rovesciata), ma dedicando un ampio spazio a una delle mie più grandi passioni, cioè le liste, e arrivando fino alle tabelle. Il terzo capitolo è dedicato invece alla creazione di “link efficaci”.
 
Il grosso del testo, però, è occupato da due capitoli centrali, il quarto e il quinto, che sono dedicati rispettivamente a essere chiari e essere concisi, per un totale di quasi 100 pagine. Qui i criteri riguardano la scrittura in italiano, e sono molto estesi e dettagliati. Più di quanto si sia visto in qualunque altro manuale su questo argomento, mi sembra. Per esempio, un paragrafo sulla concisione lessicale si espande per 11 pagine prendendo in esame, con numerosi esempi:
  • Parole lunghe 
  • Parole “espanse”, con l’esame separato di 
  •   Sostantivi 
  •   Verbi 
  •   Aggettivi 
  •   Avverbi 
  •   Preposizioni e congiunzioni 
  • Coppie ridondanti 
  • Aggettivi e avverbi superflui 
  • Articoli superflui
Io a livello didattico ho sempre trovato più efficace indicare solo i principi di base e alcune tecniche campione (per esempio, eliminare la nominalizzazione), lasciando che fossero gli studenti a ricavarne tutte le conclusioni. Però è chiaro che un’esposizione di questo tipo può essere un ottimo punto di riferimento su cui tornare più volte, a distanza di tempo, per approfondire tecniche diverse.
 
Con il capitolo 6 il libro di Fortis si sposta poi su questioni generali di impaginazione, dalla scelta dei caratteri al ruolo delle immagini, mentre il settimo capitolo è dedicato a un argomento dal taglio molto pratico: scrivere per i motori di ricerca. Ovvero, scrivere (senza eccessi) in funzione di Google. Perché in fin dei conti la prima preoccupazione di chi scrive “deve essere redigere testi di qualità: informativi, di facile comprensione, rispondenti alle esigenze delle persone cui sono destinati” (p. 234).
 
Limiti del lavoro… se vogliamo trovarne, il più evidente è che la scrittura “per il web” ha qualche tratto unitario, ma più che altro si scompone in “scrittura per i diversi generi testuali che compongono il web” (natura che spero di aver dimostrato nel mio libro su L’italiano del web). Questo principio viene ogni tanto richiamato implicitamente nel libro, ma non è descritto in modo dettagliato; a livello pratico, l’unico esame sistematico di scrittura per un “genere testuale” è quello offerto dall’appendice 1 del libro, Scrivere una pagina di FAQ (pp. 235-242). Però è chiaro che questa è una scelta, e che il manuale nel suo assieme rappresenta un’ottima presentazione di criteri di scrittura per siti web di tipo “istituzionale”.
 
Daniele Fortis, Scrivere per il Web, Santarcangelo di Romagna, Apogeo Education e Maggioli Editore, 2013, pp. x + 261, € 19,50, ISBN 978-88-387-8988-5; ricevuto in omaggio dall’editore.
 

giovedì 15 gennaio 2015

I segni dei camuni


Iscrizioni rupestri della Valcamonica sotto la neve
I tempi lunghi mi interessano.
 
Mi interessa anche la continuità della cultura umana in questi tempi lunghi… fino al punto in cui la storia incomincia a diventare storia naturale, e oltre.
 
E ancora di più mi interessano i casi in cui la continuità è testimoniata dalla scrittura. Oppure da segni che sono alla base della scrittura stessa.
 
Nell’ultimo giorno del 2014 sono stato in Valcamonica per una gita di famiglia. Ne ho (abbiamo) approfittato per vedere il Parco nazionale delle Incisioni rupestri a Naquane in Valcamonica , che è una delle più importanti testimonianze italiane di una cultura distribuita su tempi veramente lunghi. I primi esempi di iscrizioni in Valcamonica risalgono forse addirittura al Paleolitico, e a epoche in cui i ghiacciai non si erano ancora del tutto ritirati dalla valle. Nel sito di Naquane non c’è nulla di così antico, a dire il vero, ma si parte comunque ancora dall’età della pietra, forse in collegamento con l’arrivo dell’agricoltura, e si prosegue. Per migliaia di anni, apparentemente.
 
Girando con guida tra le iscrizioni, in parte coperte dalla neve, gli esempi di affiancamento e sovrapposizione sono molti. Le incisioni hanno avuto a lungo significato rituale, ed è lasciato alla fantasia del vistatore immaginare la scena: processioni con fiaccole e corna di cervo che risalgono il pendìo, da una riva e dall’altra dell’Oglio. Sciamani e sacerdoti che, in privato o in pubblico, incidono le rocce e con il passare del tempo aggiungono alle immagini di cervi, capanne e scene di caccia una serie di scritte in alfabeto etrusco (che i camuni, come i reti, adottarono con un certo entusiasmo) e poi latino, con criteri che già avvicinano alle scritture esposte moderne e contemporanee. Oggi sulla pietra levigata dai ghiacciai le epoche si mescolano e immagini relativamente arcaiche compaiono accanto a quelle di guerrieri dell’età del Ferro e a parole scritte appunto in alfabeto etrusco, come questa:
 
Scritta in alfabeto etrusco e guerriero con un sole sul torace
 
Insomma, mentre il mondo attorno a loro cambiava, gli abitanti della Valcamonica hanno continuato per millenni a tornare su queste incisioni. Forse l’hanno addirittura fatto per tradizione diretta e consapevole. Una delle cose che mi hanno impressionato di più nella visita è stata una serie di sassi incisi, ospitata nel piccolo museo archeologico di Capo di Ponte. Secondo la ricostruzione presentata lì, i sassi facevano parte di un santuario abbandonato nel Neolitico e rimesso in funzione temporaneamente nel VI secolo d. C., dopo duemilaseicento anni di abbandono.
 
Certo, le incisioni in sé possono venire “riscoperte” molte volte, anche quando ogni ricordo della loro presenza e del loro significato si è perso, ma le tecniche per realizzarle sono relativamente complesse e forse non è facile reinventarle all’impronta. Se ho ben capito, in giro per la valle si trovano appunto iscrizioni più rozze, fatte a imitazione di quelle preistoriche ma senza ricordo delle antiche tecniche: dal Medioevo fino agli interventi più recenti che sconfinano nel vandalismo contemporaneo. Il che fa pensare che solo l’avvento del cristianesimo abbia portato a una vera discontinuità culturale, e forse anche linguistica... ma su questo mi piacerebbe leggere qualcosa di più.
 
Mi è comunque difficile immaginare che dietro alla continuità di tecniche non ce ne fosse una di cultura, e dietro alla continuità di cultura forse anche una continuità di popolazione. Del resto, se una volta si vedeva la storia antica d’Italia come un susseguirsi di invasioni di popoli misteriosi, oggi si è molto più propensi a ritenere che l’ultimo cambiamento drastico sul piano demografico sia stata la graduale diffusione dell’agricoltura. Cioè un processo che secondo molti (Renfrew, per esempio) in Europa e altrove si è sviluppato soprattutto attraverso la diffusione delle popolazioni di agricoltori, che avrebbero sommerso i cacciatori-raccoglitori già presenti sul territorio. Eppure, appunto, le iscrizioni della Valcamonica mostrano una continuità che parte ancor prima dell’agricoltura, e che suggerisce quindi un cambiamento non troppo drastico perfino all’inizio del Neolitico.

Uno sciamano
 
Oggi buona parte dell’informazione segnata in questo modo è peraltro irrecuperabile. Il senso di alcune iscrizioni è chiaro, ma altre sono piuttosto misteriose e della popolazione dell’antica Valcamonica si sa in genere ben poco. Le iscrizioni in alfabeto etrusco sono leggibili ma incomprensibili, e non permettono nemmeno di capire la lingua usata da quel popolo. Io punterei alla continuità e quindi a una lingua italica fin dai tempi più remoti, ma anche un etrusco remotissimo, villanoviano e oltre, non mi sembra da escludere. Materia di lavoro non poco interessante.

 

martedì 13 gennaio 2015

Anno nuovo, lavoro nuovo

 
A volte il cambiamento formale di calendario coincide con un cambiamento di sostanza. Stavolta è successo a me: dopo 12 anni da ricercatore universitario, qualche settimana fa sono stato chiamato come professore associato di Linguistica italiana presso il Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica dell’Università di Pisa e il 29 dicembre ho preso servizio nel mio nuovo ruolo.
 
Sono molto contento del passaggio, naturalmente, che arriva a pochi mesi dall’abilitazione ed è stato possibile attraverso il Piano Straordinario Associati del MIUR. Soprattutto, però, per raggiungere il traguardo sono stati indispensabili l’apprezzamento e il sostegno di tante persone: maestri, colleghi, amici e familiari. Senza dimenticare tutti gli studenti e i laureati di questi anni, che mi hanno insegnato molto più di quello che si potrebbe pensare.
 
Dopodiché, si ricomincia! Gli ultimi mesi del 2014 sono stati molto pesanti, dal punto di vista lavorativo. Il 2015 promette di essere ancora più impegnativo, anche viste le nuove responsabilità. E in generale, questo non è certo un momento facile per il mondo universitario… ma per me è arrivato il momento di chiudere diverse faccende in sospeso e ripartire con energia. Ed è arrivato il momento, tra l’altro, di dire qualcosa di più sul mio lavoro di ricerca e insegnamento, e sulle cose spettacolari che stiamo facendo al Consorzio interuniversitario ICoN. Prossimamente su questi schermi.
 
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