martedì 15 dicembre 2009
Pistolesi, Meccanismi interazionali...
Per questo motivo segnalo con particolare piacere Meccanismi interazionali di intensità nel forum di Repubblica.it sull'immigrazione, uscito nel 2009 negli atti del convegno Fenomeni di intensità nell'italiano parlato, a cura di Barbara Gili Fivela e Carla Bazzanella (Firenze, Cesati; il contributo è alle pp. 126-147). Il forum preso in esame è stato aperto per due giorni, il 7 e l'8 maggio del 2007, e ha totalizzato 1266 messaggi. Il contributo, per buona parte, fornisce dati numerici sui messaggi; ma la sezione più interessante è forse quella sull'uso del purtroppo come frequentissimo avverbio frasale (pp. 133-137). Buono spunto per analisi su altri tipi di forum.
giovedì 10 dicembre 2009
Olson, The world on paper
Just to be more specific: Olson claims that writing systems "provide a model for language and thought" (p. 68) and that "writing far from transcribing speech tends to provide a model for that speech" (p. 78). This is of course true, on many levels (I have seen for myself how difficult it is tro persuade Italian students that in the standard pronounciation of words like sciame there is no i... they "hear" it). However, on the whole, this is also a pretty marginal fact. Writing does not necessarily entail clear models for language, and much less for thought. Conversely, perhaps you don't need writing in order to study facts of language: it is not certain that even Pāṇini , i. e. the founding father of linguistics, was living in a literate society. The Devanagari alphabet and the Hangul of Korea were clearly planned after a careful study of the sounds of the relevant languages, while in the Greek case we have only a partial planning. And so on.
domenica 6 dicembre 2009
Groensteen, Système de la bande dessinée
Devo dire che, da buon linguista, ho un po' di diffidenza verso gli studi semiologici: spesso si trasformano in sequenze di osservazioni discutibili e poco documentate, o in tentativi di spaccare il capello in quattro perdendo rapidamente contatto con la realtà. Niente di tutto questo, per fortuna, si ritrova nel lavoro di Groensteen, che è incredibilmente intelligente e ragionevole.
Descrivere il modo in cui funziona il fumetto è senz'altro difficile. Groensteen fa il suo lavoro in modo splendido, andando a esaminare, per esempio, i diversi modi in cui possono essere usati gli spazi bianchi tra le vignette, o l'importanza delle sequenze di vignette nella lettura. Giusto per dare un'idea dei contenuti, al ruolo della vignetta (cadre) nel sistema del fumetto sono dedicate venticinque pagine che descrivono sei diverse funzioni: di clôture, séparatrice, rythmique, structurante, expressive e lecturale. La prima di queste, continuando nell'esempio, riguarda la chiusura del disegno e l'assegnazione a esso di una forma specifica - tratto che, per inciso, distingue radicalmente l'immagine del fumetto da quella del cinema (a forma fissa). E così via, con una buona alternanza di classificazioni teoriche ed esempi pratici.
L'aspetto più propriamente linguistico è trattato solo di sfuggita, ma va bene così: quella è area di competenza dei linguisti, appunto, più che dei semiologi... Però all'interazione tra testo e immagine Groensteen dedica alcune pagine ben fatte (150-167), in cui si discute del modo in cui le parole nel fumetto servono, per esempio, a influenzare il tempo di lettura, facendo indugiare il lettore su vignette che altrimenti sarebbero superate in un istante (funzione rythmique, p. 157). In un mezzo di comunicazione che intreccia immagini e parole scritte si creano infatti innumerevoli interazioni di livello che sono inconcepibili nella narrativa tradizionale.
Insomma, il libro non è solo interessante di per sé. Dal punto di vista operativo è anche un oggetto molto comodo per i linguisti: permette di dire "per le implicazioni generali di questo meccanismo, si veda quanto dice Groensteen a pagina...", per concentrarsi poi, seriamente, su problemi di lingua.
domenica 29 novembre 2009
Trema, ombra di Confucio
我 叫 米可, 姓 Tavosanis.
我 是 意大利人. 我 四十 一 岁了.
我是 Pisa 的大学 意大利 语 老师. 我 学 网 的 语.
我 喜欢 学 汉语 和 中文.
Il Parnaso della prosa cinese può far posto per un nuovo ospite, accanto al Sogno della camera rossa e Ai margini dell'acqua. Cioè, ammesso che mi riesca di passare l'esame, naturalmente...
martedì 24 novembre 2009
Disegnare il cinese
Giusto per dare un po' di contesto: i sistemi operativi moderni, per esempio Windows Vista (quello che sto usando adesso per scrivere), permettono di inserire nel testo caratteri cinesi in diversi modi. Uno di questi consiste nello scrivere da tastiera la trascrizione pinyin, che viene immediatamente convertita nei caratteri corrispondenti, riducendo il numero di alternative man mano che si va avanti nella scrittura della parola. Per esempio, per scrivere il classico 吗, ma (particella interrogativa in fine frase), vado sulla barra della lingua di Vista, al posto di IT seleziono CH e incomincio a scrivere: prima una m, e compare una lista di possibili caratteri; poi una a, e compare una lista più mirata, con all'inizio 吗 (e, più in basso, altri possibili caratteri, tra cui per esempio 马 per mǎ).
In questo modo è molto facile inserire una parola di cui si sa la trascrizione in pinyin, e non c'è neanche il problema di ricordarsi i segni diacritici per i toni: xue viene immediatamente mostrato come 学, aihao come 爱好, e così via (gli esempi sono tutti in caratteri semplificati, secondo lo standard della Repubblica Popolare, che è quello che sto studiando adesso). In alcuni casi, però, il numero delle possibilità è molto alto - visto che il cinese ha tantissimi omografi.
In questi casi si rivelano utili le funzioni di disegno. Su Vista c'è la possibilità di disegnare caratteri con il mouse. Con l'iPhone si disegna con il dito sul touchscreen, dopodiché si seleziona il carattere desiderato tra quelli che sono apparsi sulla destra dello schermo. Con un minimo di pratica, ci vuole in media più o meno lo stesso tempo necessario a scrivere usando l'alfabeto latino.
mercoledì 18 novembre 2009
Come in un romanzo
Dal punto di vista linguistico, in questo romanzo ci sono diverse novità, incluso un uso estensivo dei dialetti - e mi sa che adesso dovrò riscrivere buona parte del mio lavoro presentato a Varsavia, per tener conto dei nuovi elementi. Io però segnalo Altai adesso in quanto ho avuto l'onore di venir incluso nel libro come personaggio: nei primi capitoli compare Marco Tavosanis, "il furlano", sgherro della Serenissima Repubblica di Venezia...
La comparsa è verosimile anche dal punto di vista storico. Anche se i Tavosanis sembrano documentati solo dal Settecento, ai tempi dei tempi evidentemente ogni tanto qualcuno di loro scendeva giù dalle montagne e andava in città. E, quando si ha la fortuna (?) di ritrovarsi come cognome una sequenza di nove caratteri mai usata per altri scopi in nessuna altra lingua del mondo, non è difficile controllare le attività degli antenati tramite Google Books: per esempio, in una Raccolta di atti del governo provvisorio di Venezia, tra gli ufficiali di Marghera nel 1849 compare un "tenente Tavosanis" (p. 55). Lo sbirro cattivo del libro potrebbe quindi essere più realistico del previsto!
venerdì 13 novembre 2009
Varsavia a novembre
Il mio intervento era dedicato alla Lingua moderna dei romanzi storici; cioè, in sostanza, all'uso a volte anacronistico di un linguaggio moderno (soprattutto per gli insulti) in libri come Q di Luther Blissett / Wu Ming, oppure come la trilogia di Magdeburg di Alan D. Altieri. Con, in più, qualche confronto con la situazione non italiana, a cominciare dal Baroque Cycle di Neal Stephenson, di cui però a Varsavia non ho potuto parlare un gran che. Mi rifarò, auspicabilmente, con la versione per gli atti del convegno.
Il viaggio è stato anche un'occasione interessante per visitare Varsavia, dove non ero mai stato. Particolarmente curioso poi il centro la mattina dell'11: festa nazionale con negozi chiusi e tanti gruppetti di rievocatori in uniformi d'epoca.
Adesso, al rientro, mi ritrovo con un arretrato imponente di compiti da correggere, tesi da rivedere e così via... ma spero di riallinearmi presto.
giovedì 5 novembre 2009
Dopo Lucca
sabato 31 ottobre 2009
Disegnare su schermo
Nel 1968 Licklider e Taylor pubblicarono un profetico intervento sull'interazione uomo-macchina, The Computer as a Communication Device ("Science and Technology", aprile; il saggio è stato ripubblicato in un Research Report della Digital nel 1990 e oggi è disponibile anche come Pdf gratuito). Il testo era accompagnato da numerose vignette di Roland B. Wilson, opportunamente riprese anche nell'edizione moderna, che descrivono bene ciò che gli addetti ai lavori, all'epoca, si aspettavano dal computer.
In una delle vignette (quella in basso qui a sinistra) è mostrato appunto il modello base dell'interazione in stile Sutherland: il personaggio disegna sullo schermo un cuoricino un po' approssimativo e lascia che il computer lo regolarizzi e lo abbellisca. Così come faceva lo Sketchpad di Sutherland per le figure geometriche. Ma per quanto tempo si può tenere il braccio in una posizione del genere? Giusto l'anno prima, Engelbart aveva risolto il problema attraverso il mouse. E, comprensibilmente, oggi quasi nessuno disegna su schermo - tantomeno su schermo verticale.
Ma qualcosa si è perso: l'idea di comunicare attraverso disegni. Oggi il mouse si usa di solito per interagire con il computer, o per fare grafica professionale. La comunicazione con gli altri esseri umani si compie attraverso la tastiera (o il microfono), e le immagini complesse non vengono più "regolarizzate". Con qualche eccezione, peraltro...
mercoledì 28 ottobre 2009
Tradurre Rat-Man
Ecco la presentazione ufficiale dell'incontro:
Nella frase “Ma Rat-Man è intraducibile” ci va il punto interrogativo?
Andrea Plazzi (editor; co-traduttore in Inglese di RAT-MAN) e Mirko Tavosanis (Università di Pisa, Dipartimento di Italianistica) discutono un caso di traduzione. Interviene Leo Ortolani.
Appuntamento quindi per venerdì 30 ottobre, ore 15.00, nella Sala Incontri Camera di Commercio nel centro di Lucca.
mercoledì 21 ottobre 2009
In archivio col cannone
Un cartellino informativo messo accanto al cannone spiega la vicenda e il ruolo dell'Archivio nel ritrovamento (che ha permesso di recuperare anche un bel po' di lingotti d'oro). Il messaggio sottinteso sembra essere: "ecco un esempio di quel che possono fare gli archivi".
Vero, ma il ripescaggio di qualche lingotto d'oro impallidisce rispetto a quel che è implicato dal resto delle carte. Raccolti qui a partire dalla fine del Settecento, i documenti sono la testimonianza del modo in cui la Spagna ha gestito per tre secoli un intero continente: in buona parte, attraverso la scrittura. Trattati, documenti, atti amministrativi, eccetera. Mi spiace esserci passato nei giorni tra un'esposizione e l'altra, in un momento in cui non c'era praticamente nessun documento originale in mostra per il visitatore di passaggio; ma in questi casi, quel che conta è l'idea...
martedì 20 ottobre 2009
Arabo e latino
Forse la risposta è strutturale. Molte varianti di scrittura araba in fin dei conti si basano su tratti verticali e tratti orizzontali, in uno schema relativamente semplice. La scrittura latina invece è basata su lettere di altezza uguale nel "maiuscolo", su tratti che spuntano un po' sopra e un po' sotto la lettera nel caso del minuscolo. Forse questo rende più complicata la vita a chi vuole farne un uso calligrafico.
Mi chiedo però se la questione sia stata affrontata, in questi termini, da qualche esperto del settore. Anche la Blackwell Encyclopedia of Writing Systems di Coulmas si limita a dire che, rispetto alla tradizione europea, l'uso artistico della calligrafia "was much more pronounced in the Far East and in the Arabic-speaking world of Islam", senza speculare ulteriormente.
Resta il fatto che il confronto diretto, come si può fare per esempio nei Reales Alcazares di Siviglia (una sorpresa in sé: chi avrebbe mai immaginato che Carlo V si fosse sposato in una stanza piena di iscrizioni in arabo?), è impietoso:
giovedì 15 ottobre 2009
Toccaschermo
Il problema base è semplice e ben noto: tenere la mano sollevata all'altezza di una superficie verticale (o semiverticale) è faticoso. Se non c'è piano d'appoggio, si può fare per pochi secondi alla volta.
Questo, tra l'altro, è uno dei motivi che hanno determinato il successo del mouse rispetto a strumenti più diretti di interazione. Quando nel 1963 Ivan Sutherland ha realizzato il primo sistema grafico di interazione con il computer, Sketchpad, il mouse ancora non esisteva e la tecnologia della light pen era relativamente matura (come si vede nella fantastica foto di Sutherland al lavoro, che piazzo qua a destra riprendendola dal sito da Wayne Carlson, visto che non sono riuscito a trovare e a citare la fonte originale). Ma le prove di Engelbart hanno mostrato a fine anni Sessanta la superiorità del mouse per il contatto grafico con il computer nella maggior parte dei casi. Certo, il mouse è "indiretto"... ma lascia lo schermo libero, non fa perdere tempo per raccogliere la penna e portarla allo schermo ogni volta che si devono alternare strumento grafico e tastiera, nérichiede piani inclinati per sostenere il braccio.
Che fortuna possono avere quindi i computer da tavolo con touchscreen? Limitatissima, direi, come nota per esempio, a proposito di notebook, questo recensore di Wired. Che prodotti del genere arrivino addirittura alla grande distribuzione mi sembra come minimo curioso.
lunedì 12 ottobre 2009
Perché non comprerò (subito) un Kindle
Il meccanismo di funzionamento è semplice. Si pagano 279 $, si riceve un Kindle dotato di autonoma scheda telefonica 3G, e da quel momento in poi si può cominciare a comprare libri. O, come dice Jeff Bezos, avere accesso ovunque a un qualunque libro in sessanta secondi.
Non male, in effetti.
Allora, però, perché non comprarne uno?
Ragione 1: finanziaria. Duecentosettantanove dollari più spese di spedizione più diritti doganali fanno, secondo le stime di Amazon, 371,98 $, che sono un bel po' di soldi (250 € al cambio attuale). Il tutto per un oggetto che non è un libro, ma che serve a leggere libri.
Economicamente la cosa ha senso se il prezzo dei libri elettronici è tanto basso da compensare il prezzo dei libri su carta che comprerei nell'arco di vita dell'apparecchio. Stima non tanto facile da fare, visto che compro una discreta quantità di libri inglesi e americani, ma che spesso li compro usati, e che altrettanto spesso il costo maggiore è quello di spedizione. Diciamo, in prima approssimazione, che un libro elettronico mi farebbe risparmiare in media il 50% (ed è una stima alta).
In questo caso, Kindle conviene se, diciamo, in tre anni di vita dell'apparecchio compro 160 € l'anno di libri. Nel 2007, che è stato un anno record, ho speso su Amazon.com 267,34 $, inclusi i costi di spedizione. Sono 179,28 € al cambio attuale, cioè a malapena sopra la soglia indicata.
Poi è vero che qualcos'altro l'ho preso su Amazon.co.uk, ma insomma, il margine di risparmio mi sembra basso - e non tale da spingermi a immobilizzare 250 € nel lettore. Soprattutto visto che...
Ragione 2: ben pochi tra i libri che mi interessano sono disponibili in versione Kindle. Ho fatto il controllo, e nessuno dei libri che sono in attesa in questo momento nel mio carrello su Amazon.com è disponibile in versione Kindle. D'accordo, in formato Kindle ci sono già centinaia di migliaia di titoli... ma io sono un lettore un po' particolare.
Le cose cambieranno di sicuro nei prossimi anni, ma per il momento l'idea di comprare un Kindle per vedere in sessanta secondi i libri che mi interessano non sembra particolarmente sensata.
Ragione 3: se anche trovassi i libri, e mi convenissero, c'è la questione del DRM (= non posso prestarli, o neanche archiviarli in modo sicuro... a differenza dei libri tradizionali). Sì, d'accordo, prima o poi probabilmente anche Amazon si convertirà ai testi senza DRM, come ha fatto iTunes con i brani musicali. Ma quando?
Ragione 4: L'usabilità di questi libri per motivi di studio è ancora scarsa - come è stato ripetuto anche su questo blog. Se dovessi solo comprare romanzi, non avrei dubbi. Ma su altri prodotti sì. E in pratica io compro e leggo per il 90% saggistica.
Insomma, per me l'era del Kindle non è ancora arrivata. Sospetto che non sia lontana, ma non inizierà nel 2009.
domenica 11 ottobre 2009
Ancora sul Kindle e sul giornalismo di seconda mano
La risposta è stata decisa: nessuno degli studenti coinvolti nel programma ha restituito il proprio Kindle. La dottoressa Temos ha poi aggiunto che, a quel che sapeva lei, nessuno dei numerosi servizi giornalistici che si sono occupati della faccenda ha parlato di "restituzione" del Kindle.
In sostanza, quindi, l'articolo del Corriere della sera da cui era partito il mio discorso conteneva davvero un'informazione inventata, cosa che avevo sospettato fin dal primo momento e che non mi entusiasma. E purtroppo il punto in sé, che a prima vista potrebbe sembrare secondario, non lo è affatto. Che gli studenti si lamentino di avere difficoltà con il Kindle è un conto; che arrivino a restituire l'apparecchio dopo pochi giorni è tutt'altra faccenda, e ben più rilevante. Tant'è vero che il Corriere ha usato proprio questo "dettaglio" per il sottotitolo del pezzo in home page, insistendo sul fatto che alcuni studenti avevano "riconsegnato" il Kindle (anche se qui devo andare a memoria, visto che questo titolo non mi sembra sia più reperibile sul sito del giornale).
Insomma, confermo il giudizio di partenza: questo e' l'ennesimo esempio di come gli standard giornalistici italiani siano laschi rispetto, per esempio, a quelli americani. Peccato, ma del resto temo che in Italia i lettori internazionalizzati e specialisti facciano sempre meno ricorso ai quotidiani italiani come fonte di informazioni affidabili.
mercoledì 7 ottobre 2009
Oltre l'immaginazione
Cinque anni fa era ancora impossibile. Quindici anni fa si iniziava a malapena a immaginarlo. Più indietro era fantascienza e basta. Scrittura in rete, ovunque, sempre disponibile e modificabile.
sabato 3 ottobre 2009
Pdf sotto vetro? Abbiamo provato per voi... Acrobat Digital Editions
Oggi, per esempio, si lavora spesso con i file Pdf, di solito aperti con il semplice Acrobat Reader. Il che significa innanzitutto: nessuna possibilità di modificare il testo (punto su cui tornerò più avanti). E problemi aggiuntivi, a cominciare dall'impossibilità di riaprire il file là dove si era interrotta la lettura la volta precedente. Al solito, in un libro a volte le pagine si aprono da sole al punto in cui eravamo rimasti, e alla peggio si può usare un segnalibro... ma perfino il lettore di file Pdf di Air Sharing per iPhone offre lo stesso servizio; e così molti altri programmi paragonabili.
Non, però, il classico Acrobat Reader. Che tra l'altro, in modalità schermo intero, mi lascia una sensazione strana: come se il libro fosse lì, dietro lo schermo del computer, intrappolato letteralmente sotto un vetro.
Per fare un passo avanti mi sono quindi installato Adobe Digital Editions (gratuito, come il Reader) e ho fatto qualche prova di lettura. I risultati non sono stati entusiasmanti. E' vero che, a differenza della versione base, Digital Editions ricorda l'ultima pagina aperta di un documento già letto; ma per il resto mostra limiti curiosi.
Innanzitutto non legge tutto ciò che il Reader è capace di aprire. Per esempio, l'edizione Pdf di Libraries of the Future di Licklider (otto mega di file) si apre con il Reader, ma non con Digital Editions. Lo stesso per The Wealth of Networks di Yochai Benkler, che ho messo in programma per il corso di Linguaggio del web del prossimo semestre. E così via. In generale, i problemi nascono su file piuttosto grossi - cioè proprio quelli su cui la funzione di "riapertura automatica" sarebbe particolarmente utile.
Poi, non c'è una modalità a schermo intero, analoga al classico ctrl+L del Reader. O perlomeno, anche guardando la documentazione io non sono stato capace di trovarla. E così, un testo su fogli A4 o assimilabili lascia comunque parecchio margine attorno alla pagina e riesco a leggerlo solo se i caratteri sono grandi. Se sono piccoli, la pagina intera diventa visibile solo facendo scorrere i contenuti.
Infine, si possono inserire segnalibri, ma le funzionalità sono molto limitate e, per esempio, non si può semplicemente evidenziare una parte di testo.
In positivo, il programma dispone di una funzione "libreria", che mostra anche qualche dato sui file inseriti. Però i file vanno individuati a mano, e non c'è l'analogo delle funzioni "Cerca sul tuo computer" che permettono di costruire librerie di foto (p. es. con Picasa) o di brani musicali (p. es. con iTunes). Diciamo che andare in caccia della libreria fa capire quanti Pdf si accumulino sul computer, e quanto poi sia difficile anche solo capire di che cosa si tratta in base al semplice nome del file ("prc00456.pdf": che cosa sarà mai?).
In definitiva: Digital Editions non può sostituire il semplice Reader. Toccherà tenerseli tutti e due, in attesa che venga fuori qualche cosa di meglio. A meno di non spendere qualcosa per verificare i programmi analoghi a pagamento...
giovedì 1 ottobre 2009
LIbri di testo elettronici: i problemi continuano
Però, per fortuna, l'articolo ha un rinvio al testo originale, pubblicato dal Daily Princetonian, che è una solida descrizione di fatti e testimonianze (scritta da un* student*, Hyung Lee, destinat* a laurearsi nel 2012). Spicca, tra i problemi notati da docenti e studenti, il fatto che il Kindle non presenta i numeri di pagina, a differenza delle edizioni su carta, e questo comporta difficoltà nella verifica delle citazioni... Eccetera. Come dice uno studente:
“Much of my learning comes from a physical interaction with the text: bookmarks, highlights, page-tearing, sticky notes and other marks representing the importance of certain passages — not to mention margin notes, where most of my paper ideas come from and interaction with the material occurs,” he explained. “All these things have been lost, and if not lost they’re too slow to keep up with my thinking, and the ‘features’ have been rendered useless.”
Insomma, oltre al giudizio sullo strumento, da queste testimonianze emerge un bel panorama di buone pratiche didattiche - che da noi sono spesso considerate inutili pedanterie. Meglio inventarsi qualche pezzo di informazione, o infilare in un testo un mezzo verso di Leopardi...
giovedì 24 settembre 2009
Everett, Don't sleep, there are snakes
Le cose però sono andate in modo diverso da quello previsto, al punto che, come racconta l'interessato in questo libro, a contatto con i pirahã è stato Everett a "convertirsi" e a diventare ateo. Processo messo in moto da vari fattori. Non ultimo, quello linguistico-culturale: i pirahã, secondo Everett, si interessano, del tutto ragionevolmente, solo al qui-e-adesso, o tutt'al più a ciò che ha testimoni viventi. Bibbia e vangeli sono quindi per loro, per definizione, irrilevanti.
L'aspetto più interessante della cosa è che Everett mette in collegamento la cultura e la lingua: rispettando un principio di aderenza ai fatti, i pirahã parlano solo per asserzioni, e quindi per esempio non possono servirsi di subordinate relative. Né la loro lingua contiene ricorsività, almeno a livello sintattico.
Sarà vero? Personalmente, nutro molti dubbi. Everett è una delle pochissime persone al mondo (pirahã inclusi) capaci di parlare il pirahã, quindi è difficile smentirlo sui dati di fatto! Però diversi punti delle sue considerazioni mi sembrano poco solidi. Certo, Don't sleep, there are snakes è un libro divulgativo: più autobiografia che studio scientifico (al punto da non avere nemmeno bibliografie finali). Tuttavia qualcosa non torna. Perché la ricorsività e le frasi relative dovrebbero, di per sé, essere impossibili in una lingua che culturalmente si limita solo ad asserzioni?
Everett dice, prendendo come esempio la frase "The man who is tall is on the path", che "The embedded sentence merely adds some old information shared by the hearer and the speaker", e che "embedded sentences rarely, if ever, are used to make assertions" (p. 234). In che senso? "Ho incontrato un uomo che mi ha chiesto la strada" non va bene da questo punto di vista?
lunedì 21 settembre 2009
Libri sotto vetro
Non è il mio caso.
A me i libri piacciono in quanto strumenti: oggetti per conservare informazioni. Che siano in perfette condizioni è secondario. Anzi, se possibile, preferisco comprare libri usati piuttosto che nuovi. Certo, se vengono da una biblioteca non va bene scriverci sopra; e anche se i libri sono di proprietà personale, è bene non maltrattarli, perché dopo un po' cadono a pezzi. Ed è bene non riempirli troppo di scritte, perché poi non ci si capisce niente (o non si possono fotocopiare per le lezioni). Eccetera.
Questione di gusti, certo.
Però a volte capita qualcosa di curioso. Stamattina mi sono informato sulla possibilità di comprare qualche libro con i miei fondi di ricerca (cioè i soldi disponibili per portare avanti i lavori individuali: nel caso mio, poco più di mille euro, per il 2009). La risposta: sì, si possono comprare libri con quei fondi, ma i libri devono essere acquistati tramite la biblioteca di dipartimento e devono essere conservati in biblioteca. E quindi non possono essere usati per prendere appunti, evidenziare, eccetera. Cosa che, in effetti, volevo fare con un'edizione della Grammatica di Renzi - di cui in biblioteca sono già presenti un paio di copie, che però, giustamente, vanno conservate al meglio. Nulla da fare. Se voglio un libro da usare in questo modo, devo pagarmelo di tasca mia.
Cosa quantomeno curiosa. Se compro un computer con i miei fondi di ricerca, non devo depositarlo in nessuna biblioteca. In pratica, posso usarlo, strapazzarlo, metterci sopra i programmi che mi sembrano più utili, perfino smontarlo o usarlo come fermaporta, se mi torna utile per il lavoro. Com'è giusto che sia.
I libri no. Devono rimanere immacolati.
Regolamento di Ateneo, mi hanno detto. Probabilmente nato da qualche idea molto generica, tipo "così aumentiamo la dotazione delle biblioteche". E forse anche da un concetto di livello più alto, ma sbagliato: "i libri non sono strumenti come tutti gli altri". Sono cose da riverire, e tenere sotto una campana di vetro? Per evitare che vengano usati?
Bah. Questo regolamento non è certo l'ostacolo peggiore che ci si trova di fronte su lavoro. Ma è un ostacolo talmente irragionevole che dà un po' da pensare.
venerdì 18 settembre 2009
Altri esami
Uno dei vantaggi del sistema Unipos rispetto ai vecchi statini è la possibilità di vedere gli esami e i relativi voti sotto forma di foglio Excel, pronti per l'elaborazione. Qualcosa si può addirittura vedere sotto forma di grafico già usando il sistema on line, come in questo caso...
In prima battuta, mi sembra interessante un fatto: il grafico dei voti mostra un concentramento sulle fasce alte - a cui hanno contribuito, per esempio, i numerosi studenti della specialistica che hanno sostenuto la prova del Laboratorio di Italiano scritto professionale (ZZ699). Sarebbe interessante confrontare la situazione con la media degli esami della Facoltà di Lettere!
domenica 30 agosto 2009
Pinker, How the mind works
Pinker ha scritto un libro piuttosto eterogeneo su questo argomento. Le cinquecentosessantaquattro pagine di testo sono divise in otto capitoli:
1. Standard equipment: la mente funziona a moduli
2. Thinking machines: simboli elaborati meccanicamente
3. Revenge of the nerds: l'evoluzione e il rapporto con la mente
4. The mind's eye: la vista (e le icone del computer)
5. Good ideas: entità astratte e matematica
6. Hotheads: emozioni
7. Family values: riproduzione e violenza
8. The meaning of life: musica e arte
Sembra una costellazione di argomenti diversi... e in effetti lo è! Pinker ha trattato alcuni gruppi di funzioni mentali e qualche tratto complessivo (nei primi capitoli). La selezione è molto arbitraria. Perché per esempio trattare la vista e non l'udito? O le emozioni, ma non la memoria?
Comunque, una lettura affascinante e con diversi spunti utili. Anche se non è proprio una completa teoria del modo in cui funziona la mente.
sabato 22 agosto 2009
McDonald, River of Gods
Inoltre, anche in questo caso la storia funziona. Impossibile sapere come andrà a finire, visto che, nonostante tutto, sono ancora a meno di un terzo... Però intanto è emerso qualcosa di professionalmente interessante: la descrizione di un laboratorio di fisica teorica nel 2047. Anche se i personaggi ricevono d’abitudine messaggi proiettati direttamente negli occhi e con l’aspetto di scritte che galleggiano nell’aria, l’immagine del loro spazio di lavoro è molto più tradizionale. Quando il giovane Vishram Ray entra in uno dei laboratori che ha appena ereditato, scopre che
There are non humming machines or looping power conduits, just desks and glass partitions, paper piled unsteadily on the floor, whiteboards on the walls. The white boards are full of scrawls. They continue onto the walls. Every square centimetre of surface is crammed with symbols and letters edged at crazy angles to each other, lassoed in loops of black felt marker, harpooned by long lines and arrows in black and blue to some theorem on the other side of the board. The brawling equations spread over desks, benches, any flat surface that will take felt marker. The mathematics is as unintelligible to Vishram as Sanskrit, but the cocoon of thought and theory and vision comforts him, like being inside a prayer (pp. 164-5).
I pennarelloni servono però anche per altri tipi di messaggio, apparentemente:
As his party leaves, Vishram picks up a felt marker and quickly writes on the desktop: DNNR, 2NITE?
Sonia Yadav reads the invite upside down.
“Strictly professional,” Vishram whispers. “Tell me what’s hot and what’s not.”
OK she writes in red.
8. PICK-UP HERE.
She underlies the OK twice (p. 165).
Come andranno a finire le cose, immagino lo scoprirò nelle prossime 400 pagine...
venerdì 14 agosto 2009
Rheingold, Tools for Thought
L’aspetto più datato del libro è però la sua definizione del contenuto. Per metà si parla dell’evoluzione dei computer, e per metà dell’evoluzione delle loro interfacce (l’argomento che interessa a me): due temi non tanto distinguibili all’epoca. Da un certo punto in poi i due filoni si intrecciano, ma ovviamente il secondo entra in gioco tardi. Vale a dire, a pagina 132, capitolo 7, attraverso la figura di J. C. R. Licklider. Il quale, nella primavera del 1957, esaminando il proprio impiego del tempo decise che “most of the task (...) of any technical thinker would be performed more effectively by machines” (134). Come nota Rheingold, l’idea che il computer potesse rimpiazzare non lo scienziato, ma i suoi aiutanti, a quel tempo era già venuta in mente a Engelbart e forse a qualcun altro. Licklider si trovò però presto in una posizione che gli permetteva di concretizzare l’idea: responsabile per l’assegnazione nel settore informatico dei fondi di ricerca del Ministero della Difesa statunitense.
Per il resto, il libro traccia il profilo dei soliti noti: Engelbart, Taylor, Kay... e Ted Nelson. Già nella prospettiva del 1985 erano queste le figure chiave per l’evoluzione delle interfacce informatiche fino al modello-Alto. I protagonisti degli altri capitoli sono invece i fondatori dell’informatica, da Ada Byron a Robert Shannon, e un gruppetto di persone che aveva qualche speranza nel 1985 ma è finito a percorrere strade decisamente marginali: chi si ricorda oggi di nomi come Rodman, Laurel e Barr? O della tecnologia dei “sistemi esperti”? Rheingold perde invece l’occasione di mettere a fuoco il ruolo degli imprenditori che già nel 1985, e molto di più in seguito, hanno plasmato l’evoluzione del computer: Bill Gates viene ricordato in tre pagine, Steve Jobs in due. E la parola “Internet” non è nell’indice analitico (compare invece nell’Afterword), nonostante che già nel 1985 la rete fosse una realtà consolidata nel suo ambiente.
Di questo genere di sorprese, peraltro, era già consapevole Rheingold. Come per esempio a p. 192, quando parlando di Engelbart si dice che:
It is almost shocking to realize that in 1968 it was a novel experience to see someone use a computer to put words on a screen, and in this era of widespread word processing, it is hard to imagine today that very few people were able to see in Doug’s demonstration the vanguard of an industry.
Effettivamente... Ma questo è il motivo per cui, più che quelli che fanno predizioni sul futuro dell’informatica, negli ultimi tempi mi interessano quelli che raccontano il suo passato. Le proiezioni dei singoli profeti sono sempre destinate a essere smentite, e spesso non sono comunque gran che coinvolgenti; il ricordo dei lavori già fatti, e delle strade che non sono state percorse, viceversa, è uno splendido trampolino di lancio.
mercoledì 5 agosto 2009
Hiltzik, Dealers of Lightning
Tra i materiali più leggeri c’è anche questo Dealers of Lightning (1999). Il titolo, d’accordo, è terribile; e il libro è divulgativo. Però è comunque una storia interessante del Palo Alto Research Center della Xerox nel periodo 1969-1981. Il PARC, come molti sanno, è il luogo in cui per la prima volta molte caratteristiche fondamentali dell’interfaccia utente dei computer contemporanei sono state messe a punto e introdotte in sistemi commerciali o quasi-commerciali, a cominciare dal computer Alto (1973). Insomma, è stato il luogo in cui le intuizioni degli anni Cinquanta e Sessanta sono uscite dal laboratorio... a differenza di quanto era successo con lo SRI di Douglas Engelbart.
Tuttavia il PARC si porta dietro la fama di essere stato una serie di occasioni mancate per la Xerox. Come sintetizza Hiltzik:
Xerox had the Alto; IBM launched the Personal Computer. Xerox had the graphical user interface with mouse, icons, and overlapping windows; Apple and Microsoft launched the Macintosh and Windows. Xerox invented What-You-See-Is-What-You-Get word processing; Microsoft brazenly turned it into Microsoft Word and conquered the office market. Xerox invented the Ethernet; today the battle for market share in the networking hardware industry is between Cisco Systems and 3Com. Even the laser printer is a tainted triumph. Thanks to the five years Xerox dithered in bringing it to market, IBM got there first, introducing its own model in 1975 (pp. 389-390).
Nelle pagine finali del libro in effetti Hiltzik contestualizza questo giudizio e lo sfuma un bel po’. Tuttavia il quadro che viene fuori dalle quattrocento pagine precedenti è abbastanza sorprendente. Hiltzik è un giornalista economico e racconta le vicende del PARC dal punto di vista delle dinamiche aziendali. Il quadro che ne esce è una storia di scontri tra bande e lotte per il potere tra persone variamente incompetenti (al punto che l’università italiana sembra al confronto un paradiso di razionalità, armonia e pianificazione...). Che alcune di queste persone abbiano inventato cose oggi fondamentali sembra quasi una contraddizione. Al punto che ci si chiede – è sempre la mia domanda di base, in fin dei conti – quanto queste innovazioni fossero sviluppi logici necessari e quanto invece siano state frutto dell’inventiva individuale.
Comunque segnalo il capitolo 20, The Worm That Ate the Ethernet (pp. 289-299), perché ho scoperto qui che il famoso worm creato da John Shoch venne all’epoca immediatamente ricondotto (da Steve Weyer) al tapeworm informatico immaginato pochi anni prima da John Brunner nel suo The Shockwave Rider (in italiano, Codice 4GH). Hiltzik definisce il tapeworm di Brunner “perhaps the first computer virus of fact or fiction” (p. 295), e, anche se con diversi distinguo, in effetti anche questo è un curioso esempio di preveggenza narrativa.
sabato 1 agosto 2009
Che cosa insegnare?
Vediamo un po'. Per il Laboratorio di Italiano scritto professionale penso di fare in sostanza la versione migliorata di quello che ho fatto quest'anno. Ci sono ore in più, e penso che saranno utilissime.
Per il corso di Linguaggio del Web della specialistica, invece, vorrei affrontare un argomento quasi del tutto nuovo: il diritto d'autore e la proprietà intellettuale. Visti in buona parte dall'angolazione linguistica, ovviamente, ma non solo.
Come bibliografia penso di inserire tutti i libri di Lessig liberamente disponibili sotto licenza CC. Di sicuro, The Future of Ideas e Remix.
La messa a punto del programma sarà uno dei lavori di agosto.
venerdì 31 luglio 2009
Gli esami non finiscono mai?
Quindi, per la prima volta da mesi, stasera non ho elaborati da rivedere. Una lunga fila che, fino all'inizio di questa settimana, è stata anche il motivo principale del mancato aggiornamento di questo blog.
Arrivati tempi più spensierati, ne approfitto intanto per fare le statistiche: sul sistema Unipos risultano solo 47 esami confermati, da maggio a oggi. Avrei detto di più!
Ma è anche vero che il mio sistema di correzione, che prevede uno scritto, una discussione e una revisione del testo, è particolarmente impegnativo...
Dei 47 esami, 30 sono di Comunicazione per Informatica. Pochini, visto che negli anni scorsi ne facevo centinaia. Come mai questo calo? Ma per COM il 2009 è stato l'ultimo anno, sicché mi sa che non avrò mai la risposta a questa domanda.
martedì 30 giugno 2009
La forma del libro
- l'esposizione si è chiusa oggi;
- a fine anno dovrebbe riaprire, ma chissà...
- l'argomento corrisponde a un punto fisso nei miei corsi.
La prima sala ospita materiale greco: quasi tutto pre-codex, fatto in sostanza di ostraka e papiri, più due tavolette cerate (una delle quali ancora dotata di cera e relativa iscrizione). La cosa più sorprendente qui è stata è la modernità della scrittura (anche maiuscola) nelle lettere e nelle liste: separazione delle parole, saluti e firme a fondo pagina, lettere che vanno sopra e sotto il rigo, eccetera. La lettera del dieceta Apollonio (251 a. C., pezzo 9) o le istruzioni al fattore Heroninos (265-266 d. C., pezzo 13) non hanno nulla da invidiare alle lettere di due millenni dopo - a parte, se ho ben visto, la mancanza di una data! Cose già note, beninteso, ma vederle sotto un faretto da mostra fa un'altra impressione.
Un po' meno interessante la seconda sala, che pure contiene parecchie cose notevoli - tra cui forse il primo Dante "del Cento", la Bibbia "di Marco Polo" reimportata dalla Cina, e così via. Ci sono anche alcuni rotoli moderni di origine extraeuropea: una scelta che sarebbe stata migliore se fossero stati tutti rotoli di testo, non di pittura.
Dal punto di vista della ricerca, certo, la mostra non aggiunge nulla a quel che già si sapeva. E dal punto di vista della didattica lascia un po' perplessi: non illustra in modo completo l'evoluzione rotolo-codex, ma solo campioni illustri, senza spiegare troppo bene che cosa succede tra l'uno e l'altro. Oh, beh, è una mostra di papiri e pergamene e per raggiungerla bisognava attraversare la sala disegnata da Michelangelo! Ci sono pochi modi migliori per riprendere il lavoro dopo le corse all'estero.
Del resto ci sono arrivato con lo spirito giusto: per (forse) la prima volta in vita mia sono saltato sul treno senza portarmi dietro neanche un foglio di carta stampata. Solo l'iPhone, che ho usato per leggere Content di Cory Doctorow. Ma questo penso che sarà l'argomento di uno dei prossimi post.
sabato 20 giugno 2009
Bardini, Bootstrapping
Bootstrapping di Thierry Bardini è un libro che fornisce la risposta a un buon numero di queste domande. Dal punto di vista storico, è un libro su (come dice il sottotitolo) "Douglas Engelbart, Coevolution, and the Origins of Personal Computing". Ma le invenzioni di Engelbart, nome oggi praticamente sconosciuto, sono fondamentali. La sua "Madre di tutte le demo", nel 1968, presentò al pubblico in un colpo solo il mouse, gli ipertesti, la videoscrittura e la videoconferenza.
Le tecnologie attuali non erano le uniche prese in esame da Engelbart. Per esempio, una delle sue idee di base era stata quella di integrare l'interazione tramite mouse con quella tramite una tastiera ridotta a cinque tasti: una "tastiera ad accordi" (chord keyboard) che permetteva di scrivere rapidamente usando una mano sola, mentre l'altra operava. Oppure il mouse da ginocchio...
venerdì 29 maggio 2009
Landes, The wealth and poverty of nations
Landes è stato un po' messo in ombra dal successo di Jared Diamond, ma la sua concentrazione sui dati economici è interessante - specie di questi tempi. La geografia non è messa in ombra, ma Landes le dà un ruolo ragionevole, in contrapposizione per esempio a ciò che ha fatto Diamond in Collapse - libro stimolante ma che arriva a conclusioni chiaramente sbagliate.
Alla fine, la sostanza è che finora hanno funzionato nazioni che integrano stato e mercato (anche se Landes è propenso a glissare sul primo termine, ne riconosce il ruolo fondamentale; il rapporto è particolarmente evidente nei periodi in cui riaffiora il protezionismo). E in sostanza, per far diventare ricca una nazione...
... what counts is work, thrift, honesty, patience, tenacity (p. 523). The one lesson that emerges is the need to keep trying. No miracles. No perfection. No millennium. No apocalypse. We must cultivate a skeptical faith, avoid dogma, listen and watch well, try to clarify and define ends, the better to choose means (p. 524).
E su queste riflessioni la cavalcata si chiude. La cultura sembra il punto chiave, e a parità di condizioni ho il sospetto che Landes abbia ragione. Certo, in molti punti il libro è scritto in tono ironico, e la battuta nasconde a volte errori nel racconto dei fatti... ma l'impostazione generale mi sembra solida.
martedì 26 maggio 2009
Tooze, The Wages of Destruction
Una delle cose interessanti - o umilianti - della saggistica umanistica è la scarsa resistenza delle conclusioni. Nella linguistica ci sono mode che vanno e vengono, e che a volte oscillano tra un estremo e l'altro. Nella storia...
Incoraggiato da alcuni rinvii incrociati su Amazon.com ho preso alla biblioteca di Filosofia e Storia The Wages of Destruction di Adam Tooze (tradotto anche in italiano, come Il prezzo dello sterminio; ma chi ha voglia di leggere una traduzione?). Ottocento pagine che mi sono servite nell'ultimo mese per staccare un po' dal lavoro. Alla fine, il libro mi è piaciuto molto, anche perché è scritto con un atteggiamento da nerd che apprezzo moltissimo: finora non avete capito nulla di questo argomento, adesso vi spiego io come sono andate le cose, a forza di statistiche...
L'argomento è, nel caso particolare, l'economia della Germania sotto il nazismo. Tema arido, forse, e i capitoli iniziali (che descrivono i problemi di commercio con l'estero e bilancia dei pagamenti al tempo della Repubblica di Weimar) sono senz'altro i meno coinvolgenti. Poi il racconto si fa più serrato. Ci sono persone che possono rimanere alzate fino a tardi per leggere un'analisi dettagliata degli alti e bassi nella produzione di munizioni in Germania tra il 1942 e il 1945... me compreso, ahimè. Tooze ha fatto un signor lavoro, anche con l'ottica di smontare il mito dell'efficienza di Speer (non sono del tutto d'accordo con le sue valutazioni su questo) e rivalutare invece il lavoro ordinario dei burocrati tedeschi.
Una buona idea: leggere questo libro a poca distanza da Les Bienveillantes di Jonathan Littell. Ogni tanto i due racconti si intrecciano (come sul problema della partecipazione di Speer all'infame convegno di Posen), e dissonanze e consonanze sono interessanti. Per riflettere sul come, a volte, una cosa talmente aliena come la Germania nazista possa sembrare sgradevolmente vicina al nostro presente.
Dopo il periodo di punta
Conseguenza pratica: un mese di pausa con questi post. Bene, rieccomi qua. Ho anche due articoli e due interventi a convegni da preparare da qui al 25 giugno, più il lavoro preliminare per i test d'accesso per la Facoltà di Lettere. Non ci sarà certo da annoiarsi.
giovedì 30 aprile 2009
Metitieri, Il grande inganno del web 2.0
Il bersaglio polemico più importante sono i blog in generale, e i blog italiani in particolare. Come dargli torto? Qui da noi non è emerso quasi nessun blog importante; ce ne sono diversi di ottima qualità, ovviamente, ma non hanno certo un pubblico significativo. Alcuni li ho elencati nel menu qui a sinistra... ma, appunto, a parte il blog di Paolo Attivissimo, nessuno di loro è particolarmente famoso.
lunedì 20 aprile 2009
Un archivio per le facce
Oggi a ricevimento si è presentata una studentessa della laurea specialistica per un programma da concordare. Io le ho chiesto un po' di informazioni sugli esami sostenuti e poi anche un dato non secondario: con chi si era laureata alla triennale?
Risposta: ehm... con lei, professore.
Momento di imbarazzo.
Anche più di un momento, perché è una laurea di pochi mesi fa.
Cose del genere mi succedono ininterrottamente. Questo è il motivo per cui vado avanti con liste, archivi e calendari. Se ci sono appunti scritti, scalette e avvisi, i buchi di memoria fanno danni ridotti. Ma le facce sono ancora un problema! Forse dovrei creare un archivio fotografico di tutte le persone che conosco? E andare a consultarlo regolarmente? Un Facebook per la vita reale? Con promemoria via SMS per passarlo in rassegna ogni giorno?
domenica 19 aprile 2009
James G. Ballard è morto
Ho appena letto la notizia. Con lui ho avuto a che fare di persona tempo fa: ho contribuito a fargli un'intervista nel 1992 (o giù di lì) a Viareggio, a due passi da casa mia. Che fosse malato di un cancro inoperabile, si sapeva; ma è stata comunque una cosa inaspettata.
Per molti anni ho pensato che fosse il più grande scrittore del ventesimo secolo. Probabilmente lo penso ancora... E ho ancora il sospetto che L'astronauta morto sia il più bel racconto di fantascienza di tutti i tempi. A memoria, comincia così: "Le torri arrugginite di Cape Kennedy si ergevano verso il cielo come le cifre di una dimenticata algebra astrale".
Ma soprattutto, sono sicuro che la società post-televisiva lui l'aveva capita a fondo, quanto e meglio di chiunque altro, già negli anni Cinquanta.
Ne sentirò la mancanza, e non sarò il solo.
sabato 18 aprile 2009
Ma si può misurare la complessità linguistica?
venerdì 17 aprile 2009
Iain M. Banks, Matter
Il regalo più recente è stato Matter di Iain M. Banks. È l'ultimo romanzo ambientato nell'universo della Cultura, ed è sorprendentemente ben fatto: non mi divertivo così tanto a leggere Banks dai tempi... beh, direi dai tempi della Mente di Schar (che, ahimè, è stato tradotto in italiano giusto vent'anni fa).
Inutile cercare di riassumere la vicenda, che ruota attorno a una contesa dinastica sul pianeta a livelli Sursamen. Abbandonato dai suoi costruttori un miliardo di anni prima, Sursamen ha due livelli, l'ottavo e il nono, abitati da esseri umani con un livello di tecnologia fine Ottocento; e ha, ovviamente, un dio alieno al centro, e un segreto nascosto da qualche parte. Quel che conta è, al solito, il quadro galattico, e Banks riesce a tenerlo in piedi meglio di tutti gli scrittori (molti dei quali scozzesi come lui...) che si sono gettati in questo filone di moda.
Le note di interesse linguistico sono poche, ma di classe. Innanzitutto i nomi delle astronavi e delle loro classi, che sono belli come al solito: It's My Party And I'll Sing If I Want To, Inspiral, Coalescence, Ringdown, You'll Clean That Up Before You Leave... Poi Banks fornisce una minima, ma problematica, indicazione sul Marain:
He had called himself a Wanderer (they were talking Marain, the Culture's language; it had a phoneme [sic] to denote upper case) (p. 370).
Chissà se Banks ha ben chiaro il concetto di "fonema"? Non sono male, invece, gli imperfetti tentativi di comunicazione da parte degli Oct, una delle razze senzienti che tengono sotto controllo Sursamen. Per esempio, questo discorso di ambasciatore:
"Grief is to be experienced, thereto related emotions, and much. I am unable to share, being. Nevertheless. And forbearance I commend unto you. One assumes. Likely, too, assumption takes place. Fruitions. Energy transfers, like inheritance, and so we share. You; we. As though in the way of pressure, in subtle conduits we do not map well" (p. 31).
Ma soprattutto, è molto bella la descrizione di questa interfaccia che una dei protagonisti usa per programmare il ritorno su (ehm, dentro) Sursamen:
Even without consciously thinking about it, she was there with a diagrammatic and data-ended representation of this section of the galaxy. The stars were shown as exaggerated points of their true colour, their solar systems implied in log-scaled plunge-foci and their civilisational flavour defined by musical note-groups (the influence of the Culture was signalled by a chord sequence constructed from mathematically pure whole-tone scales reaching forever down and up). An overlay showed the course schedules of all relevant ships and a choice of routes was already laid out for her, colour-coded in order of speed, strand thickness standing for ship size and schedule certainty shown by hue intensity, with comfort and general amenability characterised as sets of smells. Patterns on the strands - making them look braided, like rope - indicated to whom the ships belonged (p. 95).
Altro che il Route Planner Michelin, o il sito delle ferrovie tedesche! Un'interfaccia del genere farebbe sognare anche Edward Tufte.
martedì 14 aprile 2009
I prossimi impegni
Per gli interventi a convegni:
- il 24 aprile sarò a Napoli Comicon per partecipare alla presentazione della scuola di traduzione per il fumetto e l'editoria di Bologna
- dal 15 al 17 giugno sarò a Heidelberg con un intervento su La scrittura non standard nei fumetti italiani, da scrivere assieme a Fabio Gadducci per il Convegno/Workshop I(l) linguaggi(o) del fumetto / Die Sprache(n) der Comics
- il 26 giugno sarò a Cork con l'intervento Between Black and Yellow: Italian Comics and
Crime Fiction all'interno del convegno Con(tra)vention
- uno sul Giornale per i bambini da scrivere assieme a Fabio Gadducci per SIGNs
- uno per la rivista tedesca Zibaldone
- uno per gli atti del secondo convegno di Rovereto
sabato 11 aprile 2009
Language complexity as an evolving variable: i presupposti polemici
mercoledì 8 aprile 2009
Seagulls screaming...
Seagulls learned many things in the last few years. And they didn't need language: culture and imitation are enough for the task at hand, it seems.
In Leghorn, I have heard, seagulls hunt pigeons regularly, as in America and elsewhere. I like seagulls, but they can be also rather disquieting presences - as I saw in Inchcolm a couple of years ago.
Anyway, I would like to know what comes next. Pedestrians and cyclists, arguably... Now, if only Alfred Hitchcock could drop by for a quick survey of the location...
lunedì 6 aprile 2009
Idee sul futuro dell'editoria
giovedì 2 aprile 2009
Quanta grammatica è necessaria?
E invece, probabilmente, no...
Del grosso del volume parlerò in un prossimo post. Per ora mi limito a citare uno dei testi contenuti, How much grammar does it take to sail a boat? L'autore, David Gil, si risponde da solo: non molta.
Per rispondere, prende innanzitutto a modello una lingua che abbia parole prive di struttura morfologica, che non contenga categorie sintattiche tipo "nome" e "verbo", e che non abbia regole specifiche per la costruzione delle associazioni semantiche. Una lingua di questo genere viene definita IMA (isolating - monocategorical - associational) e in pratica si basa solo sull'accostamento di parole, producendo significato in base al contesto e facendo a meno di molti strumenti che noi prendiamo per scontati, dalla variazione morfologica alle regole sulla posizione di soggetto e oggetto.
Una lingua puramente IMA, dice Gil, non esiste; però secondo lui l'indonesiano della provincia di Riau si avvicina molto a questo ideale. Le frasi riau possono essere del tipo ayam makan, "pollo mangiare", per indicare cose molto diverse come 'il pollo mangia', 'il pollo è stato mangiato' e così via. In aggiunta a questa non-struttura, Gil aggiunge che il riau viene usato per comunicare a tutti i livelli: dall'insegnamento universitario alle conversazioni dei cacciatori-raccoglitori nella foresta fino ai giochi di parole. Sembra cioè sufficiente per tutte le necessità umane.
Sarà vero? Per saperlo bisognerebbe conoscere più a fondo il riau (e il suo rapporto con l'indonesiano, che invece ha una discreta complessità grammaticale)... L'idea comunque è affascinante, e conferma alcuni miei sospetti di fondo. La complessità delle nostre lingue, probabilmente, è una complessità inutile.
martedì 31 marzo 2009
Baron, Always on
1. Email to your brain. Il modo in cui gli esseri umani reagiscono alla tecnologia.
2. Language online. Storia della comunicazione elettronica (dai computer ai telefoni cellulari) e definizioni.
3. Controlling the volume. Alcuni dei modi in cui gli esseri umani controllano l'interazione elettronica: segnandosi come "non al computer" con sistemi di messaggeria istantanea, facendo finta di parlare al cellulare quando incontrano qualcuno con cui non vogliono fermarsi, controllando il numero del chiamante prima di rispondere... Componente interessante, ma, direi, marginale; eppure Baron insiste molto su questo aspetto.
4. Are instant messages speech? Qui si entra più sul vivo, con la presentazione di alcune ricerche originali (anche se su campioni minimi). La risposta alla domanda "Speech or writing" è quella ormai ben nota: "Some of both, but not as much speech as we've tended to assume. What's more, gender matters" (p. 70). Ma sull'ultimo punto, il campione è tanto ristretto che, sì, anche se le ragazze scrivono in modo diverso rispetto ai ragazzi... questa è probabilmente una delle tante variazioni presenti (giovani e meno giovani, studenti e lavoratori...).
5. My best day. Un mix di osservazioni linguistiche quantitative e altre più sociologiche sul mondo dei sistemi di messaggi istantanei e di Facebook.
6. Having your say. Blog, YouTube e così via. Tante osservazioni sociologiche e ben poco di interesse linguistico. In un certo senso, le sezioni più interessanti sono quelle che parlano dei talk show alla radio e quelle che cercano di descrivere le motivazioni di chi si esprime in pubblico in questo modo.
7. Going mobile. L'uso dei cellulari... una novità (relativa) per gli Stati Uniti, ma non per noi. Con osservazioni sui modi diversi in cui le varie culture si servono del cellulare. Interessanti i confronti tra SMS e messaggi istantanei.
8. "Whatever". Internet (o altri processi globali) stanno distruggendo il linguaggio? Di sicuro alcuni tratti convenzionali vengono oggi spesso ignorati.
9. Gresham's Ghost. Le trasformazioni della cultura scritta e della lettura.
10. The people we become. Aspetti sociali della comunicazione elettronica e, in particolare, il modo in cui questa facilita il distacco dalla società.
E poi, la bibliografia. Ventun pagine di titoli... e mi verrebbe voglia di leggerli tutti!
Dalrymple, From the Holy Mountain
From the Holy Mountain racconta un viaggio attraverso le comunità cristiane del Medio oriente, compiuto nel 1994 sulle tracce del Pratum spirituale scritto da Giovanni Mosco agli inizi del VII secolo, subito prima dell'arrivo degli arabi. Niente da dire: Dalrymple è molto bravo a mettere in risalto la continuità storica e le eredità millenarie. Pazienza se ogni tanto si lascia prendere la mano dalla soddisfazione di ritrovare dal gusto per i contrasti, come in questo frammento del dialogo con un frate ortodosso nel monastero di Mar Saba, con vista sulla valle del giudizio universale:
See down there at the bottom? The river? Nowadays it's just the sewage from Jerusalem. But on Judgement Day that's where the River of Blood is going to flow. It's going to be full of Freemasons, whores and heretics: Protestants, Schismatics, Jews, Catholics... More ouzo?
Comunque Dalrymple fa venire voglia anche a un ateo come me di trasferirsi nel deserto a salmodiare in qualche cella... anche in mezzo alla descrizione delle persecuzioni a cui i cristiani mediorientali sono stati sottoposti (un po' da tutti) nel corso dell'ultimo secolo. È un'altra pagina di storia che si sta chiudendo, in nome degli stati nazionali e del monoculturalismo.